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C.1.1.7 |
il Lavoro Spirituale La Rifondazione della città Incontro n° 2 del 1 aprile 2009 Conversazione di Agostino Petrillo in dialogo con Vittorio Mazzucconi La metropoli contemporanea |
Indice IL LAVORO SPIRITUALE |
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Nel dibattito sono intervenuti anche Giorgio Fedeli, Roberta Ribali, Ettore Lariani, Ornella Budetta. Vittorio Mazzucconi “Questo incontro si svolge nell'ambito del Seminario sul LAVORO SPIRITUALE. Ci
possiamo allora chiedere che cosa significa questa espressione. La prima definizione che
mi viene in mente sembra paradossale: cioè che il Lavoro Spirituale non è null'altro che il
lavoro materiale. Penso al lavoro di tutti gli uomini, di tutte le creature, dell'universo intero.
Lavorano le galassie nel loro straordinario movimento, lavorano il sole e la terra e
lavoriamo tutti noi. Quale sia il senso di tanto lavoro non lo sappiamo, ma io oso credere
che esso sia nel senso non dico di un disegno divino ma dell'esplicazione di una sua
essenza, di una sua virtualità che, dalla materia, orienta il tutto verso uno spirito che ne è
già l'intima essenza ma che chiede in qualche modo di essere espresso e rilevato, come
una luce che emerge dalle tenebre, un ordine che esce dal caos, un uomo spiritualmente
realizzato che emerge da un'umanità che, nonostante tanti e meravigliosi sforzi, vive
nell'oscurità, nel dolore, nell'ignoranza.
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Agostino Petrillo “Quando si parla di metropoli, di megalopoli o di altre definizioni simili, bisogna evitare una
certa confusione. Rispetto alle città antiche di dimensioni molto contenute, la metropoli è
stata la realtà urbana che si è venuta affermando a cavallo fra '800 e '900, come effetto
della rivoluzione industriale che ha portato nelle città grandi masse di lavoratori. Le città di
un milione di abitanti che si sono formate in questo periodo non erano più di 5 o 6, di cui 4
in Europa.
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Vittorio Mazzucconi
“Temo che la soluzione del problema della città, come di tanti altri aspetti del nostro
tempo, sia la catastrofe! E' cioè iscritto in ogni cosa, come nella nostra giornata e nella vita
umana stessa, che al fine di rendere possibile appunto una nuova giornata, una nuova
vita, e anche una nuova civiltà, si debba accettare la fine delle forme precedenti, proprio
perché non più vitali, non più capaci di progredire e migliorare, ma solo spinte verso un
inarrestabile deterioramento e la fine. La fine ha in sé la possibilità di un nuovo inizio, ne è
anzi la sola possibilità. Segue uno scambio di idee su cosa si intende per identità: quella personale o quella dei luoghi, quella di una cittadina, il modo in cui i suoi abitanti la vivono, i vecchi che vi sono attaccati, i pendolari che vanno ogni giorno a lavorare a Milano, i giovani aperti ad altri orizzonti con i viaggi, la Tv, internet, gli immigrati da altre regioni, nazioni o continenti. Giorgio Fedeli ci parla della doppia identità, per esempio di chi vive e lavora in due luoghi diversi. Roberta Ribali legge nel nostro tempo la capacità di identificarsi in moltissimi luoghi, con uno spettro molto vasto di interessi, affermando il valore dell'elasticità contrapposta alla rigidità di identità locali. Agostino Petrillo afferma che la contemporaneità vive nel cambiamento, nella percezione di identità diverse e multiple, anche se si potrebbe ricercare un minimo di identità condivisa, ossia di identificazione in valori comuni non più o non necessariamente legati a un luogo. Personalmente è poi portato a sorridere quando sente parlare di genius loci o di anima dei luoghi, perché gli sembrano idee vaghe e che si prestano a divenire dei facili slogan. Vittorio Mazzucconi lo invita però a convenire che un segno significativo in un luogo, come
un antico monumento, concorre a formarne l'identità e permette anche a chi viene da
altrove di aggregarsi e riconoscersi in essa. Pensa poi che, in mezzo all'universale
intercomunicazione e interscambiabilità del mondo contemporaneo, sia sempre più
evidente la necessità di qualche punto fisso, di centri di riferimento come sono appunto i
centri storici delle nostre città, con il senso di appartenenza che essi ispirano, formando
così a questa appartenenza anche i nuovi immigrati.
Agostino Petrillo osserva poi che l'accento sull'identità non è necessariamente la soluzione di tutti i mali, come si vede nelle città antiche, in cui la chiusura nelle loro mura e nel loro isolamento, rinforzava certo l'identità della città ma portava anche a feroci lotte di potere al suo interno. Vittorio Mazzucconi, quanto alla chiusura che si associa oggi a un provincialismo, ricorda che , nelle città antiche, essa produceva grandi opere che avevano al contrario un valore universale. “E' infatti vero che, ovunque si concentrino il pensiero e il sentimento degli uomini, che sia in un'opera, una famiglia, un amore, un'impresa, un ideale, è proprio da questa concentrazione che nascono i grandi valori, non certo da un generico interscambio e dalla polivalenza che è propria del mondo contemporaneo”. Roberta Ribali si chiede se si può ancora pensare a un centro, quando è evidente che, nella città di oggi, sono molteplici i centri, di lavoro, shopping, divertimento, in cui ci si aggrega di volta in volta, così come ci si può anche disgregare, insistendo quindi su questa idea di variabilità e elasticità. Perché spaventarsi poi della periferia? “Anche l'essere umano ha una periferia, una periferica: il computer”. Vittorio Mazzucconi risponde che è proprio a fronte di questo fenomeno che bisogna ricreare o rivalutare dei punti fermi e centrali. “La verità non è nell'estremo movimento né in una rigida immobilità, ma nel considerare ciò che è variabile e ciò che è fisso, come pure ciò che è effimero e ciò che è perenne, ciò che soddisfa la vitale esuberanza del singolo e ciò che costituisce un cemento di continuità fra le generazioni, come aspetti di un'armonica complementarietà. Le tendenze centrifughe, policentriche della città contemporanea sono quindi da equilibrare con un nucleo, un cuore centrale, come spiegherò nel mio prossimo intervento su Milano”. Segue un dibattito sul lavoro degli architetti sull'identità dei luoghi. Ettore Lariani rileva che un discorso sulla fondazione di nuove città non può prescindere dalla qualità dell'architettura, menzionando il pessimo esempio di Gibellina. (ma ha visto le New Towns inglesi?). Osserva poi che è facile per un architetto trovare riferimento a un suo progetto in un monumento o un contesto storico, mentre, dovendolo pensare in una periferia, viene a mancare questo supporto. Nel dire questo, fa anche l'esempio del progetto di Vittorio per l'Arca del Duomo, anche se un giudizio sulla sua “facilità” va inteso fra virgolette. Vittorio Mazzucconi risponde indirettamente a questa opinione raccontando quella che egli
chiama una favola, cioè il progetto Aix-Etoile per una grossa agglomerazione nella
banlieue parigina, in cui egli si è inspirato a “una storia immaginaria che racconta di un
fiume, di una cinta di mura, di un antico foro...Chi è interessato al progetto, può vederlo su
Internet ma qui si vuol solo discutere di un'idea: che il riferimento al passato, alla memoria,
alla propria radice, sia un'esigenza insita nella psiche umana, come lo è in ogni pianta
l'impulso a buttar fuori delle radici. Questo riferimento può essere letto in una tradizione, in
un testo, in monumenti, in rovine, ma sarà soprattutto vivo e presente nel nostro animo. Se
non riesco a spiegarmi, guardate la facciata dell'edificio dell'Avenue Matignon che ho
realizzato a Parigi, che mostra appunto questa memoria “immaginaria” e tuttavia quanto
pregnante e reale, perché prescinde da un'informazione storica per far emergere invece
un substrato psicologico.
Di fronte alle dimensioni mostruose e indeterminate della metropoli contemporanea, ci si pone infine il quesito su quale dovrebbe essere la giusta dimensione di una città. Agostino Petrillo ci parla delle congetture fatte a questo proposito, a partire da Platone che
precisava perfino il numero ideale di abitanti, 6000, fino a Fourier e a molti altri cultori di
utopie urbane. Il riferimento a dei calcoli abbastanza astrusi è indicativo di una certa idea
che ci si fa della città, riferita alle sue dimensioni, mentre è invece da un punto di vista
qualitativo che bisogna giudicare una città: se essa permette una buona vita urbana, intendendo per questo il riconoscersi nell'ambiente e nei valori sociali, economici e
culturali che in esso vengono sostenuti; se una persona ha in una tale città delle mondo che non permettono tutto questo siano del tutto negative. Molti antropologi hanno
infatti messo in evidenza la ricchezza di rapporti umani e la rete di solidarietà che si
creano nelle favellas.
Ornella Budetta si associa infine a questa impostazione, in particolare per la mutabilità dello scenario che si va via via configurando mentre, per ciò che riguarda l'identità, esorta a rapportarla a dei valori piuttosto che a un luogo preciso. Fra questi valori privilegia la sostenibilità, di cui si prende oggi sempre più coscienza, e i diritti umani, mentre esclude le soluzioni formali che vengono ostentatamente proposte. Vittorio Mazzucconi obbietta che, se è bene rifiutare il protagonismo
e le invenzioni di un formalismo arbitrario, non per questo bisogna
rinunciare al ruolo creativo dell'architettura, in nome di una generica
anche se benemerita sensibilità sociale. Da una parte, come aveva fatto
notare Agostino, è tipico di certa cultura architettonica il presumere
che l'architettura possa risolvere dei problemi sociali, invece di porsi
al loro servizio. Dall'altra, bisogna richiamare l'architetto al suo
vero lavoro: “egli deve infatti partecipare alla città con la sua propria
opera e con un'autentica competenza, se possibile non riferita a presunzioni
ideologiche, ma a quell'orientamento interiore che, come i monumenti
di tutte le epoche insegnano, permette all'architettura di essere non
solo uno strumento di utilità pratica e sociale, ma una visione e una
testimonianza: ciò che io chiamo “Il Lavoro Spirituale”. |