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C.1.1.7

il Lavoro Spirituale
La Rifondazione della città

Incontro n° 2 del 1 aprile 2009
Conversazione di Agostino Petrillo in dialogo con Vittorio Mazzucconi
La metropoli contemporanea


Indice IL LAVORO SPIRITUALE

 

Nel dibattito sono intervenuti anche Giorgio Fedeli, Roberta Ribali, Ettore Lariani, Ornella Budetta.

Vittorio Mazzucconi

“Questo incontro si svolge nell'ambito del Seminario sul LAVORO SPIRITUALE. Ci possiamo allora chiedere che cosa significa questa espressione. La prima definizione che mi viene in mente sembra paradossale: cioè che il Lavoro Spirituale non è null'altro che il lavoro materiale. Penso al lavoro di tutti gli uomini, di tutte le creature, dell'universo intero. Lavorano le galassie nel loro straordinario movimento, lavorano il sole e la terra e lavoriamo tutti noi. Quale sia il senso di tanto lavoro non lo sappiamo, ma io oso credere che esso sia nel senso non dico di un disegno divino ma dell'esplicazione di una sua essenza, di una sua virtualità che, dalla materia, orienta il tutto verso uno spirito che ne è già l'intima essenza ma che chiede in qualche modo di essere espresso e rilevato, come una luce che emerge dalle tenebre, un ordine che esce dal caos, un uomo spiritualmente realizzato che emerge da un'umanità che, nonostante tanti e meravigliosi sforzi, vive nell'oscurità, nel dolore, nell'ignoranza.
Il Lavoro Spirituale è quindi un lavoro cosmico, mentre quello che noi possiamo fare è di cercare di compierne una minima parte in noi stessi e nelle nostre azioni, ognuno nel proprio campo. Personalmente, poiché mi occupo di architettura, di arte e di quelle poche riflessioni che anche un uomo comune può elaborare senza per questo chiamarsi un filosofo, penso al tipo di lavoro che devo compiere nel mio campo e alla cui condivisione vi invito. Abbiamo detto che è proprio lo stesso lavoro materiale che tutti compiamo ma ecco: la spiritualità che vorremmo conferirgli e anzi riconoscere in esso, è essenzialmente un orientamento, il fatto cioè di sentire, pensare e agire come si fa nella vita di tutti i giorni ma con lo sguardo fisso a una specie di stella polare. Io la chiamo il principio divino in noi, che è anche il principio propriamente umano, ma mi rendo conto del fatto che altri preferiscano una terminologia differente.
Nell'ambito del Seminario, ci occupiamo in questa prima fase della città. Ho invitato per questo Agostino Petrillo, docente di sociologia urbana al Politecnico, a parlarci della metropoli contemporanea, e ne parlerò nel prossimo intervento anch'io, con l'approccio però di una visione su come essa può essere pensata guardando al futuro. Il disastro della metropoli contemporanea e del mondo mi fa ritenere che, piuttosto che analizzarne e se possibile migliorarne alcuni aspetti, si tratti oggi di pensare a una vera e propria rifondazione della città. E' questo appunto il titolo di questa prima parte del Seminario, è questo il modo in cui ci vogliamo qui occupare della città.
Mi accade spesso di rievocare il rito di fondazione delle antiche città, ricordando che gli aruspici guardavano al cielo mentre tracciavano gli assi e il perimetro della nuova città, cioè guardavano a quell' “orientamento” di cui parlavo prima. Può sembrare una favola o al massimo una metafora ma io ho sperimentato in tanti progetti la sua verità, non come rito o come una teoria che ne elabori il significato, ma come urgenza interiore, che si esprime spontaneamente in un atto orientato e fondativo. Per essere meglio compreso, vi invito a dare un'occhiata ai progetti di cui ho dato alcune informazioni nel riassunto dell'incontro n°1, e che sono anche esposti in questa sala, e lascio la parola a Agostino”.

Agostino Petrillo

“Quando si parla di metropoli, di megalopoli o di altre definizioni simili, bisogna evitare una certa confusione. Rispetto alle città antiche di dimensioni molto contenute, la metropoli è stata la realtà urbana che si è venuta affermando a cavallo fra '800 e '900, come effetto della rivoluzione industriale che ha portato nelle città grandi masse di lavoratori. Le città di un milione di abitanti che si sono formate in questo periodo non erano più di 5 o 6, di cui 4 in Europa.
Queste metropoli, che oggi ci sembrano assai piccole, sono venute via via crescendo, fino a configurarsi come megalopoli, più che città delle nebulose di agglomerati urbani di enormi dimensioni. Godman, lo studioso che ha studiato in particolare questo fenomeno, ne ha rilevato molti caratteri positivi, come la concentrazione di risorse, talenti, possibilità, che dovevano fare di tali città dei motori di progresso.
La successiva evoluzione è però andata in tutt'altra direzione, fino a un regresso nello sviluppo di queste realtà che si supponevano invece in continua espansione. Le trasformazioni sociali e economiche hanno portato ad altri fenomeni. Alcune città, come New York, Londra e Tokyo sono divenute dei supercentri di importanza mondiale, nell'ambito del mondo sviluppato, mentre altre, sorte nel terzo mondo, hanno raggiunto simili e gigantesche dimensioni, di 20, 25 milioni di abitanti, ma, in luogo di costituire dei centri di ricchezza e progresso, sono diventate dei luoghi di dannazione per una sterminata massa di persone, affluite nelle città nella speranza di arrangiarsi ma senza reali possibilità di progredire. Le megalopoli funzionano d'altra parte proprio come dei magneti di migranti, con l'effetto del prodursi di un tale deterioramento delle condizioni della vita umana, che vien fatto di chiedersi se l'umanità non ha imboccato una via integralmente sbagliata. Si può pensare, è vero, a dei correttivi, come un coinvolgimento positivo della gente, il miglioramento delle amministrazioni locali, buone pratiche di convivenza, o lasciare al contrario le cose come stanno, col rischio di un aggravarsi drammatico di tutti i fenomeni. Basta pensare per esempio come l'integralismo attecchisce e si diffonde nell'estrema povertà delle periferie del terzo mondo”.

Vittorio Mazzucconi

“Temo che la soluzione del problema della città, come di tanti altri aspetti del nostro tempo, sia la catastrofe! E' cioè iscritto in ogni cosa, come nella nostra giornata e nella vita umana stessa, che al fine di rendere possibile appunto una nuova giornata, una nuova vita, e anche una nuova civiltà, si debba accettare la fine delle forme precedenti, proprio perché non più vitali, non più capaci di progredire e migliorare, ma solo spinte verso un inarrestabile deterioramento e la fine. La fine ha in sé la possibilità di un nuovo inizio, ne è anzi la sola possibilità.
A questo punto, il problema della città può trovare la sua soluzione nella visione di come essa potrà essere dopo la catastrofe, la città nuova di un'umanità nuova. E' ciò che viene comunemente chiamato utopia, mentre è in realtà uno sguardo realistico sul presente e sul prossimo futuro che guida a una visione e, da questa, può trarre utili suggerimenti anche per operare nel presente.
Invece di occuparci di teorie generali sulla metropoli del nostro tempo, perché non guardiamo con attenzione a Milano? Petrillo ci parlava della dicotomia fra le megacittà del mondo progredito e quelle del terzo mondo ma aggiungeva anche che la loro situazione muta continuamente. Accade così che le metropoli occidentali sono invase (solo a Miami, 500.000 immigrati all'anno) da una popolazione di disperati che si adattano a vivere negli interstizi delle strutture urbane, come viadotti, garage, fabbriche abbandonate. Non vediamo forse tutto questo anche a Milano? E non può quindi forse accadere che la nostra città, che è una metropoli nel vecchio senso del termine, ossia una città di dimensioni abbastanza contenute, potrebbe avviarsi a diventare una città globale, ossia una massa urbana indifferenziata, con l'emergere di tutti i problemi che ne conseguono, periferia generalizzata, sradicamento sociale, depressione economica e morale, delinquenza ecc.? Vedendo in anticipo questa china, si può cercare di porvi rimedio guardando alle piccole città di cui è in realtà composta l'area Milanese e, occupandoci in ognuna di esse di ritrovarne e rinforzarne l'identità, tanto dal punto di vista storico e sociale che da quello visuale, se sapremo ridisegnarne il perimetro, separando ogni cittadina da quelle vicine mediante degli ampi spazi verdi. L'insieme di queste cittadine, servito da un'impeccabile rete stradale e ferroviaria sarà da considerare non più come un'enorme e informe città ma come un'armonica unione di città: la loro federazione”.

Segue uno scambio di idee su cosa si intende per identità: quella personale o quella dei luoghi, quella di una cittadina, il modo in cui i suoi abitanti la vivono, i vecchi che vi sono attaccati, i pendolari che vanno ogni giorno a lavorare a Milano, i giovani aperti ad altri orizzonti con i viaggi, la Tv, internet, gli immigrati da altre regioni, nazioni o continenti.

Giorgio Fedeli ci parla della doppia identità, per esempio di chi vive e lavora in due luoghi diversi.

Roberta Ribali legge nel nostro tempo la capacità di identificarsi in moltissimi luoghi, con uno spettro molto vasto di interessi, affermando il valore dell'elasticità contrapposta alla rigidità di identità locali.

Agostino Petrillo afferma che la contemporaneità vive nel cambiamento, nella percezione di identità diverse e multiple, anche se si potrebbe ricercare un minimo di identità condivisa, ossia di identificazione in valori comuni non più o non necessariamente legati a un luogo. Personalmente è poi portato a sorridere quando sente parlare di genius loci o di anima dei luoghi, perché gli sembrano idee vaghe e che si prestano a divenire dei facili slogan.

Vittorio Mazzucconi lo invita però a convenire che un segno significativo in un luogo, come un antico monumento, concorre a formarne l'identità e permette anche a chi viene da altrove di aggregarsi e riconoscersi in essa. Pensa poi che, in mezzo all'universale intercomunicazione e interscambiabilità del mondo contemporaneo, sia sempre più evidente la necessità di qualche punto fisso, di centri di riferimento come sono appunto i centri storici delle nostre città, con il senso di appartenenza che essi ispirano, formando così a questa appartenenza anche i nuovi immigrati.
L'identità può esistere poi a diversi livelli - basta pensare alla famiglia, alla scuola, all'ambiente di lavoro, alle militanze politiche - senza che uno escluda l'altro.

Agostino Petrillo osserva poi che l'accento sull'identità non è necessariamente la soluzione di tutti i mali, come si vede nelle città antiche, in cui la chiusura nelle loro mura e nel loro isolamento, rinforzava certo l'identità della città ma portava anche a feroci lotte di potere al suo interno.

Vittorio Mazzucconi, quanto alla chiusura che si associa oggi a un provincialismo, ricorda che , nelle città antiche, essa produceva grandi opere che avevano al contrario un valore universale. “E' infatti vero che, ovunque si concentrino il pensiero e il sentimento degli uomini, che sia in un'opera, una famiglia, un amore, un'impresa, un ideale, è proprio da questa concentrazione che nascono i grandi valori, non certo da un generico interscambio e dalla polivalenza che è propria del mondo contemporaneo”.

Roberta Ribali si chiede se si può ancora pensare a un centro, quando è evidente che, nella città di oggi, sono molteplici i centri, di lavoro, shopping, divertimento, in cui ci si aggrega di volta in volta, così come ci si può anche disgregare, insistendo quindi su questa idea di variabilità e elasticità. Perché spaventarsi poi della periferia? “Anche l'essere umano ha una periferia, una periferica: il computer”.

Vittorio Mazzucconi risponde che è proprio a fronte di questo fenomeno che bisogna ricreare o rivalutare dei punti fermi e centrali. “La verità non è nell'estremo movimento né in una rigida immobilità, ma nel considerare ciò che è variabile e ciò che è fisso, come pure ciò che è effimero e ciò che è perenne, ciò che soddisfa la vitale esuberanza del singolo e ciò che costituisce un cemento di continuità fra le generazioni, come aspetti di un'armonica complementarietà. Le tendenze centrifughe, policentriche della città contemporanea sono quindi da equilibrare con un nucleo, un cuore centrale, come spiegherò nel mio prossimo intervento su Milano”.

Segue un dibattito sul lavoro degli architetti sull'identità dei luoghi.

Ettore Lariani rileva che un discorso sulla fondazione di nuove città non può prescindere dalla qualità dell'architettura, menzionando il pessimo esempio di Gibellina. (ma ha visto le New Towns inglesi?). Osserva poi che è facile per un architetto trovare riferimento a un suo progetto in un monumento o un contesto storico, mentre, dovendolo pensare in una periferia, viene a mancare questo supporto. Nel dire questo, fa anche l'esempio del progetto di Vittorio per l'Arca del Duomo, anche se un giudizio sulla sua “facilità” va inteso fra virgolette.

Vittorio Mazzucconi risponde indirettamente a questa opinione raccontando quella che egli chiama una favola, cioè il progetto Aix-Etoile per una grossa agglomerazione nella banlieue parigina, in cui egli si è inspirato a “una storia immaginaria che racconta di un fiume, di una cinta di mura, di un antico foro...Chi è interessato al progetto, può vederlo su Internet ma qui si vuol solo discutere di un'idea: che il riferimento al passato, alla memoria, alla propria radice, sia un'esigenza insita nella psiche umana, come lo è in ogni pianta l'impulso a buttar fuori delle radici. Questo riferimento può essere letto in una tradizione, in un testo, in monumenti, in rovine, ma sarà soprattutto vivo e presente nel nostro animo. Se non riesco a spiegarmi, guardate la facciata dell'edificio dell'Avenue Matignon che ho realizzato a Parigi, che mostra appunto questa memoria “immaginaria” e tuttavia quanto pregnante e reale, perché prescinde da un'informazione storica per far emergere invece un substrato psicologico.
C'è una voce interiore che è proprio quella del genius loci o dell'anima di un luogo di cui si parla spesso superficialmente, ed è proprio la voce dell'identità di cui parliamo: non un'identità dialettale e provinciale, non un rinchiudersi e separarsi dall'ampiezza del mondo, non un riferimento storico o architettonico a portata di mano, ma una profonda consonanza che solo il poeta, l'artista, sa percepire, vibrando con essa. Ci si chiederà come si potrà pianificare delle nuove città basandosi su una qualità così indefinibile e rara, ma l'arte, la cultura, la civiltà che rendono degno di essere vissuto il mondo, sono proprio in questa consonanza, che il nostro Seminario chiama appunto “il Lavoro Spirituale”

Di fronte alle dimensioni mostruose e indeterminate della metropoli contemporanea, ci si pone infine il quesito su quale dovrebbe essere la giusta dimensione di una città.

Agostino Petrillo ci parla delle congetture fatte a questo proposito, a partire da Platone che precisava perfino il numero ideale di abitanti, 6000, fino a Fourier e a molti altri cultori di utopie urbane. Il riferimento a dei calcoli abbastanza astrusi è indicativo di una certa idea che ci si fa della città, riferita alle sue dimensioni, mentre è invece da un punto di vista qualitativo che bisogna giudicare una città: se essa permette una buona vita urbana, intendendo per questo il riconoscersi nell'ambiente e nei valori sociali, economici e culturali che in esso vengono sostenuti; se una persona ha in una tale città delle mondo che non permettono tutto questo siano del tutto negative. Molti antropologi hanno infatti messo in evidenza la ricchezza di rapporti umani e la rete di solidarietà che si creano nelle favellas.
Il panorama è quindi così variegato, complesso, e in continua evoluzione, che sarebbe ben difficile individuare delle soluzioni precise.

Ornella Budetta si associa infine a questa impostazione, in particolare per la mutabilità dello scenario che si va via via configurando mentre, per ciò che riguarda l'identità, esorta a rapportarla a dei valori piuttosto che a un luogo preciso. Fra questi valori privilegia la sostenibilità, di cui si prende oggi sempre più coscienza, e i diritti umani, mentre esclude le soluzioni formali che vengono ostentatamente proposte.

Vittorio Mazzucconi obbietta che, se è bene rifiutare il protagonismo e le invenzioni di un formalismo arbitrario, non per questo bisogna rinunciare al ruolo creativo dell'architettura, in nome di una generica anche se benemerita sensibilità sociale. Da una parte, come aveva fatto notare Agostino, è tipico di certa cultura architettonica il presumere che l'architettura possa risolvere dei problemi sociali, invece di porsi al loro servizio. Dall'altra, bisogna richiamare l'architetto al suo vero lavoro: “egli deve infatti partecipare alla città con la sua propria opera e con un'autentica competenza, se possibile non riferita a presunzioni ideologiche, ma a quell'orientamento interiore che, come i monumenti di tutte le epoche insegnano, permette all'architettura di essere non solo uno strumento di utilità pratica e sociale, ma una visione e una testimonianza: ciò che io chiamo “Il Lavoro Spirituale”.

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