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C.1.1.15 |
il Lavoro Spirituale Il Rinnovamento dell'uomo Incontro n° 10 del 27 maggio 2009 Conversazione di Dario Sacchi, Docente di Filosofia Teoretica all'Università Cattolica, in dialogo con Vittorio Mazzucconi, sul tema: La filosofia nella storia |
Indice IL LAVORO SPIRITUALE |
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Nel dibattito sono intervenuti anche Roberto Provenzano, Gerardo Palmieri, Patrizia Sophie Graja, Francesco Rampichini. Vittorio Mazzucconi Ringraziamo Dario Sacchi, professore di filosofia teoretica alla Cattolica,
che ha gentilmente accettato l'invito a condividere con noi questa
serata. Molti di voi hanno già seguito gli altri incontri che
fanno parte del nostro Seminario, per il cui titolo ho usato una parola
molto pericolosa, la parola “spirituale”, secondo me la
parola più bella, più importante che si possa usare, ma
che viene capita molto male e confusa con qualcosa di confessionale
e fa così inalberare chi sostiene che tutto sia da riportare
alla realtà, al determinismo ecc. mentre invece io trovo che
spirituale sia semplicemente l'anima delle cose. Peggio che peggio direte,
parlare di anima è un discorso ancora più complicato.
L'altro giorno ho incontrato poi uno che mi ha detto: ma pensa che ho
scoperto che certi credono che non solo ci sia l'anima ma anche lo spirito!
Mi sono reso conto che quello che a noi, in un certo filone di appartenenza
culturale, se non religiosa, sembra l'evidenza stessa, per altri invece
fa trasecolare, come se si parlasse della luna. Comunque, questo intento
si è duramente cimentato con varie tematiche, fra cui quella
della città, che normalmente è dominio degli urbanisti,
degli economisti, dei sociologi, dell'attività economica, del
caos, di tutto fuorché di un intento spirituale, anche se, guardando
le antiche città, balza agli occhi che la loro bellezza, la loro
verità sono appunto un grande dono spirituale. Basta pensare
alle cattedrali, alla storia, a questo grande libro che le città
sono e in cui possiamo leggere e vivere la nostra civiltà. Se
poi si parla di architettura, peggio che peggio. L'architettura è
preda di personaggi fin troppo conosciuti, dei grossi affaristi, più
o meno bravi ma più che altro interessati agli aspetti concreti,
economici e politici dell'architettura. Se poi si passa alla pittura,
l'arte contemporanea dà spettacolo di una grande fatuità,
che poi si centra molto su questo strano concetto del contemporaneo,
che assurge quasi a categoria e, secondo me, esprime proprio la mancanza
del senso di una prospettiva, di un futuro....e, nel contemporaneo,
come insegna la Biennale che apre fra qualche giorno, furoreggiano le
proposte più strampalate e le installazioni dilaganti, facendone
la babele di infinite velleità e provocazioni. Dario Sacchi Si, ha detto bene l'Architetto Mazzucconi, un discorso filosofico bene
o male è sempre sullo sfondo di ogni altro discorso, siamo il
più delle volte filosofi senza saperlo, comunque lo siamo perché,
volenti o nolenti, un qualche conferimento di significato alla nostra
esistenza nel suo insieme sentiamo il bisogno di farlo....si tratta
di farlo venire allo scoperto, questo conferimento di senso, di farne
oggetto di esplicita considerazione, di tematizzarlo, di evitare che
continui a vivere un po' di contrabbando nella nostra esistenza, e cercare
quindi di sottoporlo a un giudizio esplicito. Siccome stasera si deve
considerare la filosofia in una dimensione storica, io cercherò
di sottoporvi quello che apparentemente potrebbe sembrare uno schemino
in termini riduttivi ma che, a mio avviso, può aiutare a portare
ordine in quella che può facilmente sembrare la babele della
filosofia occidentale, se ci limitiamo appunto per comodità alla
filosofia dalla Grecia ad oggi. Ecco, questa riflessione che vi sottopongo,
con un tono per quanto possibile familiare, come una chiacchierata,
cercando di impiegare solo quel tanto che sarà strettamente indispensabile
di lessico filosofico, ho cercato di formularla all’interno di
quello che è l'orizzonte più vasto delle riflessioni
che giustamente Vittorio vuole si svolgano intorno al tema della
città, della polis nella sua dimensione più ampia, della
convivenza e di tutto quello che questa comporta. Io direi
che la vicenda storica della filosofia occidentale si può dividere
in tre grandi fasi, ciascuna delle quali prevede una configurazione
determinata a diversi livelli. Per quanto riguarda la prima fase, quella
che include antichità e medioevo, è ovvio che a un certo
momento vi irrompe il Cristianesimo, come grande fenomeno culturale
extra-filosofico ma che non porta un mutamento vero e proprio nel paradigma.
Questo si muta radicalmente quando passiamo alla modernità. Ecco
quindi, come seconda fase, la filosofia moderna, che implica anche una
parte di quella che potremmo chiamare contemporaneità, già
nell'800, oltre alla vera contemporaneità che è la nostra,
dal '900 in poi. Vediamo di portare un poco d’ordine in questo
quadro. Ora, la filosofia dell'antichità e del medioevo presenta
alcune caratteristiche di fondo, anzitutto a livello di riflessione
gnoseologica e ontologica. Qui la configurazione viene determinata dalla
filosofia teoretica che appunto implica la riflessione sulla conoscenza
e sulla realtà, mentre il secondo livello riguarda la filosofia
pratica, che sul piano fondativo coincide con l’etica, e il terzo
livello riguarda la filosofia politica, con un occhio anche a un piano
più applicativo perché corrisponde all'ottica che voi
volete perseguire nel vostro lavoro sulla città. Vediamo brevemente
di illustrare ciascuno di questi tre livelli. Ora, possiamo dire che
la filosofia antica e medioevale è quella complessivamente più
vicina al cosiddetto realismo del senso comune. Tutto sommato è
una filosofia molto valida nei suoi fondamenti, molto solida, molto
robusta ma, nonostante questo e forse proprio per questo, è in
continuità con l'atteggiamento di quella che potremmo chiamare
la coscienza pre-filosofica. Fondamentalmente si pensa che esiste una
realtà indipendente dal soggetto che la pensa e che è
interessato a conoscerla: questa realtà oggettiva, ben distinta
dal nostro pensiero, dalla nostra mente, dalla nostra coscienza, è
però, in quanto tale, conoscibile, è qualcosa di accessibile
alle nostre risorse cognitive. Questo è il modo di pensare che
caratterizza il filone dominante della tradizione di pensiero più
antica; non che non esistano qua e là voci discordanti –
la sofistica, lo scetticismo o il relativismo – ma tutto sommato
si tratta di correnti minoritarie che non riescono a dare il tono all'insieme.
Diremo che i filosofi più rappresentativi di questa fase del
pensiero occidentale, che è alta, nobile e fa largo posto alla
spiritualità, come è giustamente al centro dei pensieri
di Vittorio, si riconoscono tutti in una prospettiva che distingue i
due ambiti, soggettività e oggettività, pensiero ed essere,
conoscenza e realtà, ma al tempo stesso li pone in una correlazione
molto stretta. Il pensiero è quell'ambito, quella dimensione
nella quale immediatamente si manifesta l'essere, si manifesta la realtà.
Ne segue che il primo problema che il filosofo si trova di fronte è:
che cos'è la realtà? Che cos'è l'essere? Quali
sono i principi, i fondamenti del mondo in cui ci troviamo a vivere
e a operare? La conoscenza, nel suo orientamento naturale, normale,
non costituisce un problema perché essa è proprio questa
apertura immediata alla realtà... poi, certo, vi è l'errore,
vi sono le divergenze fra i vari soggetti, tutta una serie di fenomeni
che ci spingono a riflettere sulla soggettività come tale, sulla
coscienza stessa, sul pensiero, e naturalmente viene poi elaborata tutta
una teoria della conoscenza che si cimenta a vari livelli con temi e
problemi importantissimi, la sensazione, l'esperienza, il concetto.
Se guardiamo ai più grandi pensatori di questa fase, da Platone
e Aristotele ad Agostino e Tommaso, l'orientamento fondamentale è
proprio verso un conferimento di senso ragionato, argomentato, alla
realtà. Quando il pensiero funziona, è direttamente orientato
all’essere. Naturalmente, ci si rende conto che poi la dimensione
soggettiva ha tutte le sue peculiarità che la distinguono dalla
dimensione dell'oggettività, dalla dimensione naturale, ma non
si dubita che la filosofia sia essenzialmente ontologia: un'ontologia
che in primo luogo, con i presocratici, è studio
della natura; poi, quando si comincia ad approfondire la riflessione,
in un ripiegamento su di sé, diventa filosofia dell'uomo, e questo
è il momento della sofistica di Socrate; infine, vi sono quei
grandi pensatori sopra menzionati che daranno un esplicito orientamento
metafisico alla ricerca. Metafisica come studio della realtà,
dei suoi aspetti più universali, quegli aspetti che travalicano
l'esperienza, studio dell'essere come tale, dell'essere in quanto essere,
cioè di quelle proprietà, di quelle caratteristiche che
una realtà possiede per il semplice fatto che è realtà,
indipendentemente dalle configurazioni particolari che la caratterizzano
e la animano. Tutto ciò per quanto riguarda la filosofia teoretica,
cioè il problema della realtà e il problema della conoscenza:
quest’ultimo è un problema che per tutti gli autori
ricordati sicuramente esiste, ma in un certo senso compare in
seconda battuta, perché l'orientamento immediato del pensiero
è verso l'altro da sé. In fondo il pensiero è come
l'occhio, l'occhio non vede se stesso, vede le cose, deve specchiarsi
per vedere se stesso, o forse deve accorgersi di un suo cattivo funzionamento
per essere portato a rivolgere l'attenzione su se stesso. Questo vale
per il pensiero in generale. Non si dubita che ci sia una realtà
e che compito della filosofia sia cercare di scoprirne in qualche modo
il senso: la tendenza di fondo è comunque di affermare che l'esperienza
nel suo insieme non è in grado di rendere conto di se medesima.
Platone ha bisogno di evocare una dimensione trascendente per spiegare
in qualche modo le dinamiche del mondo sensibile. Aristotele valorizza
di più il mondo sensibile e critica il modo in cui Platone presenta
la trascendenza, ma poi anche lui incentra la sua filosofia sulla ben
nota dimostrazione dell'esistenza di un Motore immobile, Atto puro,
Pensiero di Pensiero. Il Cristianesimo, a livello di pensiero, porta
certo molte modifiche, molte integrazioni, soprattutto porta l'attenzione
sulla dimensione personale dell'uomo, sulla soggettività che
diventa anche libertà, che diventa spiritualità in un
senso più pieno, ma fondamentalmente la filosofia cristiana,
sia a livello dei Padri della Chiesa, come Agostino, sia a livello dei
Dottori della Chiesa, della Scolastica, come San Tommaso d'Aquino,
non fa che consolidare e rinforzare questo impianto, in definitiva confermandolo.
È ovviamente banale presentare Agostino come il Platone cristiano
e Tommaso come l’Aristotele cristiano, ma ciò che è
banale non per questo è sempre falso, anzi tutto sommato ci dà
quello schema di fondo che in seguito potremo e dovremo riempire in
maniera sempre più opportuna e dettagliata, ma comunque ci offre
un orientamento,una bussola. Ma con questo mi introduco già nella seconda fase del pensiero
filosofico europeo occidentale. E' la fase della modernità.Idealmente
abbiamo tracciato tre colonnine: Cerchiamo adesso di riflettere su quanto avviene nella modernità
a livello più ampiamente culturale e non soltanto specialisticamente filosofico.
C'è questo senso molto forte della soggettività che, come
vedremo fra poco, è anche soggettività dei diritti, a
livello per esempio etico e a livello politico, ma poi, come già
in parte abbiamo visto, è soprattutto soggettività del
sapere, punto di vista soggettivo sulle cose, con tutto quello che questo
implica. La conoscenza diviene ora qualcosa di creativo, di costruttivo,
prima si poteva pensare che essa rispecchiasse, in un certo senso passivamente,
la realtà esterna, anzi che dovesse esserne un rispecchiamento
contemplativo, ora invece la conoscenza diventa qualcosa che l'uomo
si viene creando, costruendo. Con Kant si chiude un po' il ciclo della
modernità che Cartesio aveva aperto, in particolare si chiude
con la celebre conclusione della Critica della Ragion Pura: l'uomo può
conoscere soltanto il fenomeno, ma non il noumeno,
le cose ci appaiono secondo forme soggettive. La metafisica intesa come
scienza della realtà in quanto tale non è più possibile.
Prima di Kant ci sono nella modernità quelle due correnti contrapposte,
razionalismo ed empirismo, che però rientrano entrambe nel quadro
di dualismo gnoseologico che abbiamo visto: il soggetto da una parte
e l’oggetto dall'altra, si fronteggiano, si guardano in cagnesco,
il soggetto deve armeggiare e darsi da fare intorno all'oggetto ma non
riesce mai ad afferrarlo. Le immagini, le rappresentazioni che esso
si viene procurando, più che rappresentare l'oggetto, in fondo
lo occultano, lo nascondono, si pongono come uno schermo, come un intermediario.
Esse sono come delle “cose in me” che coprono o velano la
“cosa in sé”(tipica espressione kantiana), destinata
evidentemente a rimanere inconoscibile. A livello politico, per completare il quadro della modernità, mentre gli antichi vedevano una simbiosi, una comunanza abbastanza naturale di individuo e comunità, i moderni vedono la società come un che di artificiale, tant'è vero che la fanno dipendere da un contratto, il contratto sociale. E' una finzione, se volete un esperimento ideale, ma la dice lunga sul modo in cui viene interpretato il rapporto fra individuo e società. Gli individui esistono tutti quanti anteriormente alla società. C'è uno stato di natura, o cosiddetto tale. Tutto questo lo trovate in autori come Hobbes, come Locke, come Rousseau. Il contrattualismo poi è compatibile con un esito di monarchia assoluta , di liberalismo o di democraticismo parasocialista alla Rousseau, ma alla base c’è pur sempre la decisione degli individui di accordarsi per costruire una convivenza il più possibile basata su criteri di giustizia, che possono poi essere ben illustrati da un'etica come quella kantiana. La società è una creazione artificiosa dove si riuniscono almeno tendenzialmente persone che hanno visioni del mondo diverse ma che dovrebbero convergere in un comportamento di mutuo rispetto. Visioni diverse, compatibili con l'ideale della libertà di coscienza, anche se d’altra parte ci sono, come sapete, nella modernità guerre di religione, dovute al fatto che la cristianità perde la sua unità. Però alla fine, o per stanchezza o per maturazione, si conviene che è impossibile andare avanti a combattersi e che è meglio accettare di rispettare la coscienza di ognuno. La libertà di coscienza assume allora un valore dominante, ancor più e ancora prima della partecipazione democratica. Ecco il liberalismo moderno che però, come tutte le medaglie, ha il suo rovescio: in questo caso si tratta del fatto che, coniugandosi con il relativismo e lo scetticismo che abbiamo visto essergli connaturato in sede epistemologica, un simile liberalismo si presenta come l’esplosione di ciò che chiamiamo, intendendolo per lo più come una brutta parola, individualismo e che poi, portato all'estremo, diventa anarchismo, nichilismo etico e cose di questo genere. Però, se ci riflettete, vedrete che tutto questo, all'interno della modernità, si inserisce con una sua coerenza, come i tasselli di un mosaico. Entro questo schema, ovviamente, troviamo anche l'idealismo di Hegel, che in fondo critica Kant in base a un'esigenza di coerenza. Hegel dice: ma se noi siamo solo in contatto con il fenomeno e mai con la cosa in sé, come mai parliamo della cosa in sé come se fosse qualcosa di reale? Allora è reale soltanto il fenomeno, mentre la cosa in sé, l'essere che sta al di là è assunto solo dogmaticamente; allora il pensiero è l'assoluto, perché non deve fare i conti con nessuna realtà ulteriore, il pensiero addirittura crea i fenomeni, il pensiero è creatore della realtà. Qui abbiamo, per un certo verso, una celebrazione della libertà del pensiero, che sembrerebbe andare nella direzione di un massimo di valorizzazione della soggettività e di rispetto della libertà di coscienza, ma siccome questo pensiero che crea la realtà non è il pensiero di ognuno di noi, come io empirici, ma il pensiero dell’Io puro, trascendentale, ecco che dall'idealismo viene fuori non solo una lezione di libertà, ma anche una tendenza verso il totalitarismo. Come sapete, è tipico della modernità un alternarsi, un susseguirsi di visioni molto liberali, molto individualistiche, e di visioni dove invece la società viene quasi deificata, con un primato che gli antichi non si sarebbero mai permessi di conferirle, ed allora abbiamo il totalitarismo nelle sue varie declinazioni. Da Hegel viene fuori certamente Marx, per un certo versante, ma per l’altro versante, anche tramite Nietzsche,vengono fuori i totalitarismi di destra che insieme al comunismo si sono incaricati, soprattutto nel primo Novecento, di rendere molto movimentata la storia d'Europa. Ma che dire del contemporaneo? Il quadro è ancora molto in evoluzione. Vediamo di esplorarlo a livello della filosofia del Novecento, ermeneutica da una parte, filosofia del linguaggio dall'altra. In Italia ci sono state propaggini dell'idealismo tutt'altro che secondarie, con Gentile e Croce che sono i nostri più grandi pensatori del primo Novecento, sicuramente seguaci di Hegel, non a caso uno conquistato dal totalitarismo e l'altro che se ne ritrae in tempo ma non senza averne avvertito un qualche fascino. Se noi percorriamo bene tutto il periplo della filosofia a livello gnoseologico, ci rendiamo conto che si parte come se soggetto e oggetto fossero in continuità, in concordanza uno con l'altro, poi a un certo momento si passa invece alla fase della dualità, della divaricazione, ma sempre perché si ammette che l'oggetto, la realtà in quanto tale, sia indipendente dal soggetto, c'è insomma questo presupposto realistico secondo cui la realtà come tale è indipendente da noi che la conosciamo. L'idealismo in fondo è quella filosofia – a chi la studiava a scuola sembrava un po' bizzarra - che mette in dubbio l’indipendenza della realtà dal pensiero. Il primo impulso è di concludere che allora il pensiero crea la realtà, poi, se si ha pazienza di andare fino in fondo ci si accorge che si ritorna a qualcosa di simile al punto di partenza, perché ovviamente non è credibile che il pensiero crei davvero la realtà. E' credibile semmai che la realtà sia quella che appare al pensiero, cioè non ha senso pensare a una realtà indipendente dal pensiero perché la realtà è quella che si manifesta al pensiero. Soltanto che oggi, di fronte a quella che è la dinamica conoscitiva, abbiamo una visione molto più ampia, molto più articolata e problematica di quanto non avessero gli antichi. Il conoscere degli antichi era adaequatio rei et intellectus, corrispondenza di pensiero e di cosa, quindi un rispecchiamento passivo, mentre noi oggi intendiamo il conoscere soprattutto come un interpretare. Il conoscere è un esercizio interpretativo o, per dirlo alla greca, ermeneutico. Ciò vuol dire fondamentalmente che, quando cerchiamo di conoscere qualcosa (questa è la grande lezione che il contemporaneo trae da tutto lo sviluppo della modernità), non si tratta mai di mettere a confronto la nostra percezione, la nostra rappresentazione, le nostre convinzioni con una realtà esterna: non avrebbe senso questo, appunto perché la realtà, bene o male (più male che bene), si manifesta sempre attraverso il gioco delle nostre convinzioni, delle nostre rappresentazioni, delle nostre percezioni. Si tratta invece di compiere un percorso interpretativo all'interno delle nostre conoscenze, per cui il criterio della verità, più che essere un criterio di adeguazione fra singole rappresentazioni e oggetti, diventa un criterio di coerenza, di sistematicità, diventa un criterio olistico, infatti oggi si parla molto a tutti livelli di olismo. E' una visione della realtà il più possibile ampia, sistematica. Noi ci muoviamo sempre nell'ambito dell'interpretazione. Qual è l'interpretazione più corretta o, quanto meno, più interessante? Non quella che si adegua a una realtà extra-mentale che non potremo mai afferrare, ma quella che ci dà il senso più vasto, più ampio. Quand’è che, traducendo un testo, siamo convinti di averlo reso correttamente? Quando il senso dell'insieme torna, manifestando una sua coesione o coerenza, ma comunque andiamo sempre per tentativi perché l'oggettività è qualcosa che dobbiamo ricostruire interpretativamente e indirettamente. L’oggettività, la realtà, non è altro che quell' insieme, quel coacervo di rappresentazioni soggettive che realizza dentro di sé la maggiore coerenza e ricchezza di punti di vista. Ma soprattutto - è importante aggiungere anche questo - mentre prima sia gli antichi sia i moderni parlavano sempre del pensiero come di un qualcosa di muto o di silenzioso, oggi, ecco la grande svolta (linguistic turn),si parla non tanto di pensiero quanto di linguaggio. Voi sapete che al centro della questione della filosofia contemporanea c'è il linguaggio, ed è profondamente giusto perché qui direi che la visione dell'uomo della strada è radicalmente inadeguata. Noi siamo portati a pensare che il linguaggio sia un po’ il rivestimento esteriore di un pensiero che, in quanto tale, sarebbe antecedente alla sua espressione, ma oggi invece sappiamo bene che il linguaggio non è affatto accessorio rispetto al pensiero, essendo quest’ultimo un dialogare che internamente facciamo con noi stessi. D'altra parte anche Platone lo sapeva, dialettica da dialogos, il silenzioso dialogare dell'anima con se stessa. Prima c'è il linguaggio e dopo c'è il pensiero, perlomeno il pensiero a un certo livello di articolazione, di complessità, poiché se mi parlate del pensiero di un neonato o di quello degli animali, posto che pensino, questo può essere in qualche modo pre-linguistico, comunque prendendo il linguaggio nel senso riduttivo di linguaggio fonico, ché se parliamo di linguaggio mimico o gestuale, allora probabilmente a nessun livello e per nessuno cì potrà essere un pensiero anteriore al linguaggio. Oggi noi sappiamo che il nostro pensiero è già strutturato secondo articolazioni sintattiche primordiali, che sono linguistiche. Noi pensiamo perché siamo stati allevati in una certa tradizione che è in primo luogo una tradizione linguistica. Quindi nel linguaggio è interessante non tanto l'aspetto di vocabolario, di lessico, ma l'aspetto di sintassi, di struttura logica. In questo senso, molti, non solo filosofi ma antropologi culturali e sociologi, dicono che in ogni linguaggio sedimenta una visione del mondo. Ma se il linguaggio precede il pensiero, allora l'intersoggettività è qualcosa di fondamentale anche a livello epistemologico, e non solo etico, secondo una persuasione che unifica molte correnti della filosofia contemporanea. Se poi questo deve essere recepito anche a livello etico, ecco che oggi tendiamo a pensare, con molti filosofi contemporanei, soprattutto di area anglosassone, anche se in un senso diverso dagli antichi, che la polis, la vita associata, la dimensione della cittadinanza sono qualcosa che è anteriore all'etica individuale. Oggi l'etica è vista non come la dottrina del dovere, delle norme, oppure come il progetto che ognuno di noi si fa sulla sua vita, ma proprio come qualcosa che matura nella dimensione della società, soprattutto da parte di molti autori contemporanei che si occupano del rapporto fra libertà e giustizia, i due grandi ideali che la modernità ha consegnato alla riflessione morale e politica come il problema principale che sta davanti a noi. Oggi noi dobbiamo cercare di conciliare la richiesta di libertà individuale, che è sempre più forte, con la dimensione della cittadinanza, con la dimensione di un'integrazione fra le varie culture. E qui la sfida è quella di una società non soltanto multietnica ma multiculturale. Ultimissime considerazioni. Oggi, uno degli interrogativi che questa riflessione molto approfondita ci consegna è il seguente: come organizzare, all'interno di un unico Stato, di un'unica comunità politica, la convivenza fra gruppi, ciascuno dei quali rappresenta culture differenti? Perché, in fondo, tutto quel discorso che facevo prima sul linguaggio, l'interpretazione, l'ermeneutica ecc. può essere anche tradotto così: non c'è nessun dato, nessuna conoscenza nostra che non sia sempre interna a una certa prospettiva, a una certa “pre-comprensione”. Non c'è nessun dato, a cominciare dai dati comuni dell'osservazione, che sia oggettivo, al di qua di un'elaborazione culturale, né d'altra parte ha senso pensare alla nostra mente come a una tabula rasa. La nostra mente è già molto ricca, molto strutturata di pregiudizi, di pre-comprensioni che sono linguisticamente articolati, che dipendono dall'educazione che abbiamo ricevuto ecc. In generale, l'idea che sembra portare a un relativismo piuttosto radicale è questa: tutto è sempre mediato attraverso una certa pre-comprensione. Non esiste nessun dato che valga al di qua di elaborazioni teoriche. Tutto è sempre interno a un paradigma. Uno degli epistemologi più in vista, Thomas Kuhn, nel suo libro “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” ha parlato della storia della scienza, e non soltanto della scienza, come successione di passaggi da un paradigma all'altro. Quando dicevamo prima che la visione più oggettiva della realtà è la visione che il soggetto si viene costruendo indirettamente attraverso un processo interpretativo, questo processo deve sempre partire da certi presupposti che, in quanto tali, non possono essere immediatamente messi in gioco, perché potrei metterli in gioco soltanto sostituendoli con altri, sì che il nostro sguardo o colpo d'occhio sulle cose è sempre interno a una particolare prospettiva. Il sapere tradizionale pretendeva di essere - secondo il celebre titolo di un libro del filosofo morale americanoThomas Nagel - “a view from nowhere”, cioè uno sguardo sulle cose gettato da nessun punto di vista, ma è possibile questo? In realtà noi guardiamo le cose sempre ponendoci da un certo punto di vista. Uno sguardo from nowhere potrebbe essere solo lo sguardo della divinità, solo lei potrebbe infatti guardare le cose senza insediarsi in un posto o in un altro. Ma se in effetti ogni nostra nozione, comprese quelle che per noi sono più fondamentali, dipende da certi presupposti, come possiamo dialogare in un modo che sia autentico, e non semplicemente di comodo, con culture radicalmente diverse dalla nostra? Questo è il punto. Dario Sacchi ci parla poi della convivenza culturale in una società
multietnica, con l'intento di concludere un discorso generale con un
accenno a un problema attuale e quotidiano. Vittorio M. Ho trovato l'esposto straordinario e ti ringrazio di aver svolto un
tema esorbitante come quello della “filosofia nella storia”,
che incautamente ti ho posto, in modo veramente eccellente. Poiché,
nello spirito del Seminario, esso si inquadra in un ciclo di conversazioni
filosofiche dedicate al “rinnovamento dell'uomo” , non sarebbe
possibile cominciare a pensare in che modo affrontare questo compito,
oggi, senza aver prima dato un'occhiata, appunto, alla filosofia nella
storia che ci ha preceduto. E' “La Città a Immagine e Somiglianza dell'Uomo” (vedi Incontro n.3), un progetto che probabilmente non riesco a spiegare bene in questa sede ma che menziono non solo o non tanto come progetto urbanistico, ma come un modello che può permettere molte osservazioni, anche su un piano filosofico. Principalmente l'idea di un pensiero, che non solo ritrova un rapporto con i valori del “sentimento” ma che diventa tanto grande da contenerli, un intelletto che contenga il cuore, così come la civiltà umana, nel suo iper-sviluppo, deve giungere a contenere la natura, a proteggerla, a sentirla come il suo proprio cuore. E l'idea di una complessità che non deve portarci a una sconfinata dilatazione ed esplosione, ma deve essere compresa in un ambito razionale molto più ampio e illuminato delle piccole e desuete razionalità che la continua evoluzione del mondo contemporaneo manda in frantumi ... Dario S. Ho già detto all'inizio di questa mia carrellata che la filosofia
antica, che appare ed è la più semplice perché
ancora in continuità con la coscienza comune, non è poi
così debole come sembra. In un certo senso la filosofia
contemporanea ritorna a qualcosa del genere, cioè a un pensiero
in diretto contatto con la realtà, non scisso da questa. Il gioco
degli specchi di cui parli mi fa pensare alla monadologia di Leibniz:
un' espressione della modernità, monadi senza porte e senza finestre,
microcosmi incomunicanti, anche se il giudizio non è del tutto
negativo perché si riconosce a ognuno di essi una dignità.
La contemporaneità, quando ritorna a un contesto olistico, a
una naturalità, può farlo carica di una ricchezza che
ha accumulato nel travaglio di una ricerca millenaria. Ricostruire un
insieme organico va bene, ma tenendo conto del fatto che noi siamo complessi,
non ci basterebbe più fare un bel girotondo intorno al mondo
(vuol essere una provocazione...), una vita intorno a un centro vuoto
(vuoto rispetto alle nostre balbettanti categorie concettuali ma, se
non interpreto male il tuo discorso, in realtà pienissimo, come
lo è il nirvana buddista...) Vogliamo tutti questo ma senza
rinunciare alla nostra autonomia, alla singolarità, che è
il frutto della nostra civiltà occidentale. Un richiamo
nostalgico a Platone può, se si vuole, additarci una meta ultima
ma non può aiutarci molto nella complessità della vita
contemporanea, anche guardando solo al problema di una società
multiculturale. Vittorio M. Forse non mi sono spiegato, ma mi sembra che la tua riposta prenda
un po' troppo leggermente quello che detto. Il senso della circolarità
e, al suo interno, della centralità dell'essere non può
essere preso per un allegro girotondo. Tu che sei un grande conoscitore
di Nietzsche, non farai il suo stesso errore di fermarti al cerchio
come nell'idea dell'eterno ritorno, senza intuire che esso è
in realtà una spirale di infiniti sviluppi? Non mi sembra più
felice il paragone con un supermarket in cui acquistare le idee o anche
le credenze religiose che più ci piacciono, io ti ho parlato
dello specchio interiore, lo specchio dell'anima e non del bazar
che è invece proprio quello di troppa filosofia e dell'esposizione
ridondante di tutte le mercanzie concettuali che ha in magazzino. Apprezzo
già di più che tu colga che, in qualche caso, esista una
ricerca della verità, anche se aggiungi che essa potrebbe essere
percepita come arbitraria e soffocante in un mondo di dilagante soggettività.
Ma io vorrei chiederti: in un mondo di crescente complessità,
come è quello contemporaneo, in cui siamo del tutto disorientati
di fronte alla sua molteplicità - l'interculturalità che
hai menzionato ne è uno degli aspetti - è veramente
fuori di luogo immaginare, anche se contro corrente, la possibilità
che si giunga a un pensiero che, invece di esplodere in ogni direzione,
come accade nelle infinite ricerche della scienza e in generale in tutto
lo sviluppo contemporaneo, sappia rivolgersi al centro interiore dell'uomo,
come appunto nel mio modello di città? Roberto P. Sulle cose che si stanno dicendo, a me sembra che ci siano talvolta delle canzonette che creano degli slogan che in poco racchiudono il senso di quello che può essere un concetto molto grande: stavo pensando a quel verso di una canzone di Battiato “cerco un centro di gravità permanente che non mi lasci mai cambiare idea sulle cose che sto facendo” secondo me questo esprime quello che dicevi prima, cioè la richiesta di sicurezza, di certezze e, rifacendomi ad alcuni discorsi che facevamo nelle settimane scorse sull'arte, questo porta a chieder l'unicità, l'universalità dell'arte, l'idealismo platonico che rimpiange Vittorio, ed è indubbiamente molto difficile mettersi nella condizione di oggi in cui l'unica certezza è la parzialità della conoscenza, la frammentarietà delle cose. Impossibile raggiungere una certezza finale, anche per esempio sul discorso che facevi sul pensiero che crea il linguaggio o il linguaggio che crea il pensiero. Siamo agiti dal linguaggio (Dario S. interrompe: siamo “parlati” dal linguaggio) come ha dimostrato a suo tempo molto bene Umberto Eco, ma se questo è vero, deve esserci stato un momento in cui qualcosa che stava nell'interiorità dell'essere umano ha trovato una realizzazione, una concettualizzazione da cui poi... questo spiega perché esistono varie culture con diversi linguaggi. Per cui la cosa per cui noi ci sentiamo oggi deboli è proprio questo: è l'impossibilità di riaffermare una conoscenza come quelle antiche, anche se il rischio...Bertolt Brecht scriveva una poesia, “Ode al dubbio”mentre un altro intellettuale, Joyce, affermava che l'eccesso di dubbio porta all'inazione. Allora proprio questo mi pare il senso del tuo discorso conclusivo. Ci troviamo in una condizione in cui quel senso ermeneutico, che dovrebbe portare a una visione olistica delle cose, ci sentiamo nell'impossibilità di raggiungerlo, e qui mi sembra che si possa dire che la filosofia contemporanea proprio per questo non riesce a sviluppare una metafisica, contrariamente alle filosofie del passato. Dario S. C'è stata una fase in cui lo si è tentato, ma oggi si tende a pensare che il pensiero metafisico sarebbe un pensiero violento, autoritario, proprio perché pretende in qualche modo di incasellare la complessità della vita in categorie forti, che quindi in un certo senso mortificano l'autonomia del soggetto ecc. Quanto a quella frase di Battiato che tu hai ricordato, quanti veramente si riconoscono in quella tensione, in quell'auspicio, quanti desiderano veramente quel centro (Roberto P. interrompe: certo che lo desiderano) in reazione alla sua mancanza, però ho l'impressione che oggi non ci sia questo, mentre in passato, prendiamo la posizione di Kant che dice: “ho dovuto togliere il sapere per far posto alla fede” nella prefazione alla Critica alla Ragion Pura. Kant ritiene che la domanda metafisica sia fondamentale in qualsiasi uomo, poi è sinceramente sofferente per il fatto che, a suo avviso, risposte non se ne diano, e allora cerca di recuperare all'interno di una dimensione etica che per lui ha un valore altissimo, il dovere che ha un qualche riferimento a una metafisica. Oggi come oggi, più che domandarsi se sono possibili risposte a determinate domande, ho l'impressione che si tenda a delegittimare la domanda in quanto tale, presentandola un po' come uno pseudo-problema. Nell'alta metafisica che ritroviamo nel positivismo del Circolo di Vienna che dipende da Wilkenstein, come pure nello storicismo Europeo con Croce da un lato, Heidegger da un altro, o quando si dice in “A point of view from nowhere” che è ingenuo pensare di conquistare un punto di vista sulle cose che sia veramente universale e non dipenda da un condizionamento culturale, si conferma che qualunque nostra affermazione è sempre culturalmente condizionata a un contesto. Se uno pensa di tirarsene fuori è perché è un po' matto...Forse la filosofia seria dovrebbe - e in questo senso i filosofi non lo fanno perché cavalcano spesso il discorso facile, il seguir le mode - perlomeno liberarci da questo, cioè ricuperare fino in fondo almeno il pathos antico, la domanda sulla verità, perché oggi non c'è tanto il problema, a mio avviso, di rimpiangere le risposte (Vittorio interrompe: ma io non ti ho mai detto che le rimpiango, ma che amo molte cose in Platone, anche perché lo considero un anima religiosa e poetica, e non solo un filosofo raziocinante come tanti altri) che non possono essere più riproposte come tali, oggi bisognerebbe però ricostruire il significato profondo di certe domande perché oggi c'è una visione relativista per un verso, storicista per un altro, scientistica per un altro ancora. Un Boncinelli troverebbe prive di senso delle istanze di metafisica che, a suo avviso, potrebbero essere anche riportate a un disagio mentale, di cui si dovrebbe semmai occupare la psicanalisi, a parte che anche questa appare troppo generale e vengono ricercate semmai delle terapie pronto-uso. Bisognerebbe invece recuperare la metafisica, se non come scienza come aspirazione, che è quello che diceva Kant. Vittorio M. Su questo sono d'accordo, ma quanti nomi, quante citazioni! Come vorrei
sentir dire a un filosofo quello che è veramente nato nel suo
animo, invece di vedermi proporre una quantità di prodotti, proprio
come nel bazar di cui parlavi prima. Che l'abbia detto Kant o no, la
metafisica non come scienza ma come aspirazione è proprio ...
l'aspirazione che ho nel cuore, ed è anche quello che questo
Seminario propone: il Lavoro Spirituale. E' una metafisica? Patrizia Sophie G. Noi interpretiamo, nel momento in cui lo facciamo siamo schiavi delle nostre credenze ... ma in quanto creatori ci indirizziamo al futuro. Mi sembra che lo sviluppo della filosofia la spinga sempre di più verso un “sottile”. Perché allora rimane così ancorata a troppe definizioni sempre uguali nel tempo, contro la parola vivente, il verbo .... E' l'essere che conta, il movimento continuo del pensiero, che non deve neanche essere necessariamente alla ricerca di qualcosa ... l'anelito a sapere quello che siamo, ma senza aspettarci qualche cosa, vogliamo solo essere ... Gerardo P. Io vorrei chiedere: c'è stato qualche movimento filosofico o la soluzione di qualche problema che i filosofi hanno applicato ed è stato riconosciuta nella storia dell'umanità? Per esempio la tolleranza: che significa tollerare anche gli intolleranti, una domanda senza una risposta, un problema senza una soluzione. Mi domando quand'è che un individuo si definisce filosofo ... Vittorio a un certo punto della sua vita avrà deciso di fare l'architetto, ha studiato ed ha poi realizzato dei palazzi, dei progetti ecc. Il falegname realizza anche lui i suoi lavori. Quand'è che un individuo dice: io voglio fare il filosofo, e che cosa fa? Quello che ha detto Vittorio prima potrebbe essere una teoria filosofica buona (Dario S. senz'altro, su piazza del Duomo però non ci giurerei..) ognuno di noi manifesta delle opinioni, ma non si definisce filosofo per questo ... Dario S. Ascoltando il tuo intervento mi è venuto da pensare sulla storicità della filosofia, è quasi come una palla di neve che scendendo si ingrandisce sempre di più. Vicenda del pensiero umano, come avventura o con quale finalità? Quella di una auto-chiarificazione. (Patrizia Sophie G.: crea la realtà?) Dire che crea la realtà è molto impegnativo ... Io cercavo di prendere qualche suggerimento da quello che hai detto...anche in una situazione come la nostra, dove non sembrano più esserci sistemi forti, un po' perché non li vediamo, un po' perché li rifiutiamo, allora un'indicazione che nonostante tutto potrebbe venire è il cercare l'appartenenza a una tradizione, l'avvertire il fatto che apparteniamo a una tradizione e ci sentiamo in continuità con essa, anche come preludio per ciò che seguirà. Una fedeltà alla nostra vocazione, perché il discorso sulla storicità è anche un discorso di pietas, di devozione verso i monumenti, la la memoria, il ricordo. Sarebbe una giustificazione dello storicismo in una forma alta, non però sufficiente per disegnare le forme di convivenza a cui mirare nel mondo di oggi. E' una cosa che andrebbe richiamata perché tendiamo a dimenticarla. Questo nichilismo, soggettivismo, pensiero debole tende a dimenticare la storia, l'eredità, il legame al nostro passato. Vittorio M. Devo richiamare ancora una volta il modello di metropoli di cui ho parlato, il cui “vuoto” centrale contiene proprio il nucleo storico della città. E' giusto guardare ad esso con devozione, di cui sono pervase le pagine del mio libro che ne parlano, ma un pensiero “forte” non solo non dimentica la storia ma ha il coraggio di progettare un futuro, di cui la storia, la radice, l'identità sono il seme vivente. La pietas di un Enea non si attarda sulle memorie di Troia ma si proietta verso la futura fondazione di una nuova città, o almeno questa è l'interpretazione di Virgilio, anzi, è la forza vivificante della poesia e non l'arido storicismo dei nostri tempi. Vorrei testimoniarne anche nella nostra città, con il progetto di costruire l'Arca nella Piazza del Duomo. Ma chi crede alla poesia? Si direbbe che i problemi di mutua comprensione e convivenza che evochi non ci siano solo fra persone e gruppi di culture diverse, ma anche fra concezioni diverse all'interno della nostra stessa cultura, o fra diversi livelli di cultura, o fra una vera cultura creativa e le menti paralizzate. Il dibattito continua poi con la risposta di Dario S. a Gerardo P. sulla funzione della filosofia, che comincia scherzosamente con il detto: “la filosofia è quella cosa con la quale, per la quale, senza la quale il mondo rimane tale e quale”. Magari fosse stato così, dice Dario S., almeno non avrebbe fatto del male... Dopo averne invece illustrato tanti aspetti positivi o comunque riconducibili a un'influenza della filosofia, il discorso si allarga e ritorna poi sul problema della convivenza fra diverse culture. Esplode un dibattito molto acceso, in cui Dario S. sostiene che la tolleranza è una qualità peculiare del Cristianesimo, un punto di vista che suscita le proteste un po' di tutti e in particolare di Francesco R. Quando poi parla di radici giudaico-cristiane della nostra cultura, il dissenso è totale. Il dibattito è troppo convulso, con tante voci che si sovrappongono, e non è quindi possibile registrarlo né d'altra parte proseguirlo a un'ora già tarda. torna all'inizio dell'Incontro n° 10 il dibattito può proseguire on line scrivendoci: arcadelduomo@gmail.com |