Nel dibattito sono intervenuti
anche: Aviva Setton, Roberto Provenzano, Pat Sophie Graja, Gerardo Palmieri.
Vittorio Mazzucconi
Prima di dare la parola al Dott. Caddeo, volevo informarlo sul senso del
nostro seminario, che chiamiamo "Arte e Psiche". E' un discorso sull'anima
umana, che è collegato all'arte e in particolare alla mia pittura, perché
questa ricerca, invece di farla solo con delle parole e dei testi, in
modo prevalentemente filosofico e psicanalitico, cerchiamo di compierla
e approfondirla attraverso una lettura delle immagini. A me è accaduto
di dedicare trent'anni a una pittura che, per qualche strano motivo, non
è assolutamente figlia della cultura artistica corrente e tanto meno di
posizioni ideologiche o della ricerca di un successo e di un mercato,
ma è stata una registrazione fedele, in presa diretta, dei movimenti della
mia che sono però movimenti comuni ad ogni essere umano. Personalmente,
li ho vissuti nel corso e con la spinta dell'eros. Mentre la ragione si
è espressa completamente in quello che ho potuto fare nell'architettura,
nella pittura la parte più emotiva e profonda di me si è rivelata proprio
quando ho incontrato l'eros e mi ha permesso di percorrere il cammino
lungo e doloroso che ci porterà forse alla consapevolezza. La lettura
di questo percorso è stata articolata in tre fasi, corrispondenti a tre
tipi di figure femminili, in cui si potrebbero riconoscere delle persone
reali, ma diciamo che questo è un aspetto autobiografico a cui non do
alcuna importanza.
La prima figura che ho incontrato è Euridice, una seconda che incontreremo
a partire dal prossimo Mercoledì è Proserpina, e infine arriveremo a Psiche.
Qual'è il senso che abbiamo voluto dare a questo cammino? Euridice è l'anima
di cui Orfeo va alla ricerca e che egli perde, nel momento in cui si volta
indietro a guardarla, una perdita di cui cercheremo di comprendere e interpretare
il senso. Nella pittura essa si configura come quella Discesa agli Inferi
che si richiedeva a tanti antichi eroi di compiere, al fine di conseguire
la saggezza. A questa esperienza è seguito un periodo a cui vi ho accennato,
quasi lunare, in cui si è persa l'energia dell'eros e c'è stata invece
una elaborazione della sua perdita, con una sublimazione dell'eros in
un senso più spirituale. L'esperienza successiva di Proserpina, che faremo,
mette in luce una certa visione che mi fa sempre porre in parallelo il
rapporto fra uomo e donna con il rapporto fra corpo e anima, in cui la
perdita della donna amata è in qualche modo assimilata al distacco dell'anima
dal corpo. E' una perdita ma non totale come quella di Euridice, riassorbita
dal nulla perché l'uomo si è voltato indietro, dimenticando forse i suoi
ideali, lo scopo della sua vita. Diciamo che Proserpina ci presenta invece
un'altra visione. Proserpina che, per metà del tempo, è nell'estate, nella
terra e che per l'altra metà è invece negli Inferi, mostra proprio i due
aspetti della vita dell'anima, non dico una loro coabitazione ma, diciamo,
la percezione della dualità in tutto questo, la dualità fra corpo e anima,
fra luce e tenebra. Non più quindi solo un discorso sull'ombra come potevo
farlo con Euridice ma quello su un 'ombra che si alterna alla luce.
La terza fase, dedicata invece a Psiche, in cui si vede che Psiche, dopo
il suo felice e poi infelice amore con Eros, viene finalmente assunta
fra gli Dei, ci mostra infine il vero significato della vicenda dell'anima
umana, l'anima che riconosce il divino in sé. Questa storia molto bella
e complessa abbiamo cercato di portarla avanti ed esprimerla attraverso
l'arte e la sua interpretazione. A questo punto, lascio però a te la parola,
sicuro che certamente saprai nuotare nel mare magnum in cui ci
siamo avventurati. Io non voglio prendere altro tempo perché siamo già
in ritardo.
Alberto Ugo Caddeo
Mi ha colpito quello che Vittorio ha detto su questi tre gradi dell'anima,
Euridice, Proserpina e Psiche, E' interessante Orfeo che si volge e la
perde, quest'anima che si dilegua nel vuoto, ma vediamo un po' questo
vuoto cosa può essere: è qualcosa che sicuramente prelude al secondo livello
di stato di coscienza, che è quello "proserpinico", si potrebbe dire,
in cui c'è questo incontro-scontro fra l'ombra e la luce, un tema tanto
caro alla ricerca mia personale e che si riflette naturalmente nella mia
scuola, l'Istituto che dirigo. Quello di Euridice è un tema di provocazione
per l'essere umano. Io mi dileguo nel momento in cui mi rivolgo ai miei
attaccamenti, agli attaccamenti dell'Io, che è quindi un aspetto nostro,
contingente, storico, importantissimo, ma è anche un aspetto di "negoziazione"
nel senso che l'Io è il referente, nella realtà concreta, dell'anima che
invece rappresentiamo in Psiche. L'Io, il Signor Rossi che è nato il tal
giorno, che ha avuto un vissuto particolare, attraverso tutte le dinamiche
che formano la storia di tutti noi, è quell'Io che rispecchia continuamente
il qui e ora consecutivo, si riflette in ogni istante della nostra vita,
con la coscienza di un continuo, di un presente unico. Questo Io, questa
struttura, che nel mito di Euridice può essere rappresentata da Orfeo,
è la controparte, la riflessione di Euridice, dell'anima, nel senso che
l'Io è l'aspetto concreto, esperienziale, che fa esperienza di tutto quello
di cui l'anima, il Sé ha bisogno. Ha bisogno per che cosa? Per ri-velarsi,
auto-svelarsi: rivelarsi nuovamente significa un ritorno a uno svelamento,
ogni volta che mi risveglio mi ritrovo in uno stato di coscienza più alto,
superiore a quello precedente. E' come dire che il simbolo della vita
non è un cerchio ma una spirale.
Vittorio M.
Questo lo condivido davvero. L'abbiamo detto molte volte in questo Seminario.
Alberto Ugo C.
Nel momento in cui sembra che il cerchio si chiuda, lo stato di coscienza
dato dall'esperienza dell'Io ci porta in realtà a un'apertura ulteriore,
a una proposta di noi stessi come coscienza dell'anima. Siamo così pronti
a una nuova esperienza, apparentemente uguale alle precedenti ma in verità
differente, perché lo stato di coscienza si è ampliato: è appunto il concetto
di una spirale e mai di una chiusura del cerchio. Un mito importantissimo
di cui io sono particolarmente innamorato, per indicare questa rottura
del cerchio, importante al livello della storia dell'essere umano, è il
mito di Ulisse. Sembra che descriva un cerchio nel suo viaggio nell' ignoto,
questo essere umano totalmente assillato, quasi in modo maniacale, dal
desiderio di uscire. Uscire da dove? Da Itaca, che rappresenta il regno
massimo dell'Io. Egli è infatti un re, considerato giusto, amato dai suoi
sudditi, saggio, e vive in un'isola, quindi al di fuori di guerre o altri
tormenti. Si trova in un'isola felice, nel vero senso della parola. Ma
lui non è felice, vuole andare oltre, deve sfidare se stesso, e qui secondo
me è stupendo il rapporto dell'eros, nel vero senso della parola, con
Penelope. Essa viene vista come una povera femminuccia, asservita alle
paturnie del marito, in un'attesa bianca, per dieci anni, del ritorno
del suo uomo, che sembra che non ritorni mai, ma la speranza è l'ultima
a morire.... Non è proprio così: se guardiamo bene c'è un ponte meraviglioso,
lo diremmo oggi telepatico ma io direi piuttosto "vibrazionale", fra Ulisse,
che rappresenta l'archetipo maschile nel vero senso della parola, l'attivismo,
l'andare oltre, oltre se stessi, e questo meraviglioso archetipo femminile,
rappresentato da Penelope. Una parte, che si potrebbe chiamare il signore
dello spazio, è Ulisse, non il dominatore dei mari, non certo un grande
conquistatore, un condottiero, ma colui che è ricco grazie all'esperienza
di questo viaggio. E' un aspetto maschile che abbiamo tutti: quando si
parla di aspetto maschile o femminile non si intende l'appartenenza biologica
a un sesso o all'altro, tutti abbiamo il nostro aspetto maschile e il
nostro aspetto femminile, il difficile è integrarli uno all'altro. Questo
mito ci porta a vedere un archetipo maschile perfetto in questa insofferenza
di stare nell' idios, nel piccolo orticello, Ulisse non è certo un idiota
(non uso questa parola in un senso offensivo ma in quello etimologico
del termine), non gli interessano le cose proprie, vuole andare oltre,
nella conoscenza totale. Parliamo di Penelope: come Ulisse è il signore
dello spazio, così Penelope è il signore del tempo.
Il canovaccio di tessuto che lei crea e, con grande abilità, de-crea,
guarda caso lo distrugge durante la notte e lo ricrea durante il giorno.
Questa capacità di dominare il tempo al fine di prendere in giro i Proci,
questa furbizia intelligente con cui lei riesce a fissare il tempo e nello
stesso tempo allungarlo, sembra una contraddizione a livello razionale,
ma Penelope ce la fa benissimo, la tela è sempre nel suo farsi, come il
viaggio di Ulisse, che è come fosse in un qui ed ora, in un eterno presente,
come una riflessione dell'eterno presente, una riflessione di noi stessi.
Penelope non è Euridice, va oltre, rappresenta l'anima, come Isha, l'Eva
del paradiso terrestre. Pensiamo a Eva e a Adamo, pensiamo a Iside e Osiride,
a Penelope e Ulisse, sono metafore di un unico essere. Come dicevo prima,
non c'entra ,l'appartenenza biologica, tutti abbiamo un aspetto Eva, un
aspetto Adam, l'importante è integrarli fra di loro. Quindi abbiamo questa
dinamica nel tempo, la tela si disfa e si rifà con un ritmo quotidiano,
e Ulisse fa lo stesso con il suo viaggio, le sue avventure, simbolo di
esperienza, che sono una dinamica, un movimento. Abbiamo questa coppia
di innamorati, Ulisse e Penelope, che camminano, una con la tela e l'altro
con lo spazio della propria nave. Per prima cosa Ulisse si scopre ottimo
marinaio, lui che era un pastore, si scopre in un altro ruolo, un'altra
funzione archetipale. La voglia di trasformazione, la voglia di lasciare
Itaca, che rappresenta il suo Io. Itaca rappresenta gli appetiti che l'Io
in qualche modo può addormentare nel corso della vita umana, mentre lui
invece si libera di essi, riesce a non addormentarsi, a non arrendersi
al piacere della sua piccola isola, va oltre le proprie cose e si slancia
nello sconosciuto. Va nel vuoto, e qui si apre un tema importante. Proserpina
e Psiche verranno dopo ma qui, in questo primo aspetto, mi accentrerò
di più sulla metafora di Euridice. Nel momento in cui io sento la sparizione
dell'anima nel voltarsi indietro, assimilo tale mancanza alla morte, a
un vuoto. Gli orientali parlerebbero piuttosto di una vacuità, e qui sta
il gioco: la vacuità non è il nulla, ma è la provocazione al recupero
di Euridice, al recupero dell'anima; ci deve essere un vuoto in una tazza,
per riempirla di tè, ci vuole un vuoto nell'utero femminile perché si
crei una vita. Se non c'è vuoto non c'è sviluppo, non c'è evoluzione,
non c'è un'ulteriore stato di coscienza. Ecco allora che Orfeo si volta
dietro, guarda in qualche modo al suo passato e quindi ritorna ai suoi
appetiti, agli attaccamenti egoici dell'Io, perde momentaneamente la sua
anima, trova un buio che vive come un nulla ma a poco a poco percepisce
che questo non è il nulla ma è una proposta. Ecco allora che la morte,
che è questo vuoto, può essere assimilata a Tanatos, il cui rapporto
con Eros è ben conosciuto, ma c'è un piccolo particolare: Tanatos, che
è una parola greca, deriva da una parola Tanh (?) che significa
la proposta, l'occasione, l'opportunità. La morte c'è se io non colgo
l'occasione, se io non accetto umilmente il vuoto, la mancanza, l'assenza,
ma noi sappiamo che non c'è cultura, nel senso più lato del termine, se
non c'è questo bisogno di recuperare l'essenza. Se io non sento di dover
recuperare questa essenza, se io mi sento pieno, da dove nasce, dove può
esserci una cultura? Io sono accerchiato dai confini del mio Io, sono
ancora una volta un "idiota", cioè mi accontento, mi auto-realizzo, credo
di auto-realizzarmi, tramite i valori dell'Io, senza pensare che i valori
dell'Io sono l'esperienza. Se io vedo che il mio Io si allinea, si costruisce,
si matura grazie all'esperienza, si centra, si auto-centra attraverso
di essa, vuol dire che ogni esperienza travalica se stessa, quindi ha
un senso che va al di là della percezione che l'essere ha di se stesso.
Dovremo qui discriminare due parole che nel linguaggio comune usiamo come
sinonimi ma che non lo sono: il significato e il senso. Di ogni esperienza
possiamo darci un significato razionale, su cui convenire oggettivamente,
ma il senso che le attribuiamo è un'altra cosa. Ogni esperienza ha un
senso che travalica l'esperienza stessa, in una concatenazione che ci
porta ad avere una coscienza superiore all'episodio contingente e quindi
superiore a noi stessi. E' quello che semplicemente si può chiamare il
transfert personale. Allora Tanatos, Tanh, mi dà un'opportunità
che nasce dall'esperienza e che rimarrebbe morta, nel nulla, se io non
riuscissi a trascendere l'esperienza stessa, a farmene ricco perché le
do un senso. Se non faccio questo è un po' come girare su se stessi, come
fa un arrosto., ma io mi brucio, mi autodistruggo. Quindi, se non riesco
ad entrare nel senso di un'esperienza, ho perso un'occasione. Ecco che
allora sono nel nulla e quindi nella vera morte, e non è una morte come
recupero di un'assenza e ricerca di una presenza. Orfeo che si volta indietro
e che non vede più Euridice, ha subito la percezione di un'assenza, disperata,
senza ritorno, ma che è anche lo stimolo per ritrovarla, Ulisse ritrova
la sua Itaca, in uno stato di coscienza totalmente differente: ritorna
da straccione, mendicante, talmente straccione che nessuno lo riconosce,
solamente il suo cane fedele, Argo, il cane che è simbolo di fedeltà e
quindi di coerenza. Ulisse è stato coerente con se stesso, il cane rappresenta
la coerenza di Ulisse, ecco che quindi Ulisse è riconosciuto solo nella
sua coerenza, nella sua perseveranza, nella sua eroicità, e ritorna da
impotente, spogliato di ogni orpello, simbolo di un recupero della sua
essenza. Ma è per questo che è il più presente di tutti: ha recuperato
la sua assenza, e questo vuol dire appunto avere una presenza. Guarda
caso, uno degli episodi finali dell'Odissea è quando tutti lo riconoscono
nel momento in cui egli centra l'obiettivo con il suo arco, un arco talmente
duro che solo lui aveva la forza di fare scoccare la freccia, non solo,
ma anche di far centro, simbolo di una centratura dell'essere umano. La
morte non è nulla per lui perché, nella sua assenza da Itaca, ha già vissuto
la morte dell'Io, ha fatto l'esperienza di tutte le sue potenzialità,
degli archetipi, delle funzioni, di se stesso, ha scoperto le sue possibilità,
ha fatto Tanatos, andando oltre all'occasione, ha accettato la sfida dell'occasione
per andare oltre l'esperienza stessa.
Ecco che allora Orfeo è un po' un Ulisse in nuce, e Euridice è questa
Penelope ritrovata nel ritorno a Itaca, una Penelope vergine, nel senso
di essere fedele, che ha resistito ai Proci che la desideravano, la volevano,
sia perché era una bella donna ma anche perché era il simbolo del potere.
Questi Proci agognano all'anima, rappresentata da Penelope, ma non hanno
capito nulla di cos'è l'anima. C'è un bel racconto orientale di un saggio
che sale la montagna sacra e, salendo attraverso tutte le prove iniziatiche,
pensa che, in cima alla montagna sacra, troverà la verità, il potere assoluto,
la ricchezza. Arriva in cima alla montagna, tutto felice, e trova in essa
un libro. Comincia ad essere un po' in tensione...è solo un libro...forse
non è un libro, è una scrigno, un tesoro. Aprendolo, vede uno specchio,
che lo rispecchia. Si lascia andare all'ira, prende il libro, lo scaraventa
per terra e lo specchio va in mille pezzi. Un altro saggio fa lo stesso
percorso, sale la montagna sacra, superando tutte le tappe iniziali, arriva
in cima, pensando anche lui che troverà la verità, la ricchezza, il potere,
apre il libro, anche lui vede che c'è uno specchio, si rispecchia in esso,
chiude serenamente il libro, scende dalla montagna e ritorna a fare quello
che ha sempre fatto: il fabbro ferraio nel suo villaggio. Dopo dieci anni,
quel villaggio è diventato la capitale dell'impero. Cosa significa questo?
Che tutti siamo in cammino, tutti percepiamo un'assenza, una morte, una
mancanza di qualcosa, una mutilazione. Si dice che la felicità non è di
questo mondo, perché siamo continuamente in un percorso, che ricerchiamo
qualcosa che, una volta trovata, ci fa ricercare un' ulteriore cosa. Nel
momento però in cui io ho fatto esperienza di tutte le mie tappe iniziatiche,
nel momento che ne ho trovato il senso, la concatenazione e quindi sono
andato oltre il significato limitante dell'esperienza stessa ma ho capito
che ogni esperienza mi ha portato a uno stato di coscienza superiore,
quando poi arrivo alla tappa massima, alla cima, io mi riconosco aprendo
il libro e guardandomi nello specchio. Mi riconosco e mi rifletto e quindi
prendo coscienza di tutto me stesso, ossia prendo coscienza di tutto l'universo.
Questo è il mio potere, questa la mia ricchezza, questo è ciò che trasformerà
me e chi è intorno a me. E qui entriamo in un tema importante, che è quello
dell'irraggiamento, della radianza, quando si parla di un maestro illuminato,
egli non lo è 24 ore su 24, o 365 giorni all'anno fino alla sua morte.
Chi è illuminato ha avuto un'esperienza talmente profonda che può avvenire
in una frazione di secondo, e quell'esperienza l'ha stravolto. Ne nasce
una radianza, un carisma, che trasmette il suo silenzio, la sua vacuità
a tutte le persone che lo incontrano, che lo riconoscono, ma non è che
sia un illuminato, non è Dio ma un aspetto di Dio e quindi quell'esperienza
della totalità del divino che ha fatto in un attimo l'ha incisa dentro
di se per tutto il resto della sua esistenza, e lui trasmette solo questo,
perché è andato oltre, nel senso dell'esperienza, ma senza collegarla
al suo Io e ipertrofizzarlo. Non è il suo Io che si è arricchito dell'aspetto
divino ma è la sua Isha, la sua anima.
Una cosa che ho appreso da pochissimo tempo da una persona molto alta
a livello spirituale è la differenza fra il segno della croce che facciamo
noi cattolici e protestanti e quella invece degli ortodossi. E' difficile
parlarne a fondo in questa sede ma essa fa riconoscere la nostra vera
natura, distinguendo un Dio oggettivo che è al di sopra di me da un Dio
soggettivo che è dentro di me, per giungere infine a una congiunzione
dei due aspetti di Dio. La superbia, la tracotanza dell'Io, la sua cecità
che guarda al passato, mi portano a non riconoscere il mio Sé. E' un fatto
che, se siamo delle personalità bene integrate, bene allineate, che hanno
avuto dei successi nella vita, in qualsiasi campo, e quindi abbiamo saturato
la nostra assertività, siamo meno portati a tale riconoscimento. Sarebbe
d'altra parte prematuro parlarne a un diciottenne, a un ventenne, che
devono vivere l'assertività del loro Io, devono conquistare delle cose
con esso. E' dopo che, saturate certe assertività, posso integrare il
mio Io con il richiamo dell'anima che bussa, la chiamata dell'anima.
La notte dell'anima è una grande lotta, pensiamo a quella stupenda pagina
di Manzoni nei Promessi Sposi, in cui parla dell'Innominato. Guarda caso,
si chiama proprio così, perché i meandri più profondi della nostra anima
non possono avere nome: sono cose talmente profonde dentro di noi che
ogni anima ha un'esperienza di sé, una definizione di sé che è incomunicabile
a se stessa, nel senso che la razionalità non ci può arrivare. E' un sentire
dentro che non può essere comunicato. Non è comunicabile nemmeno a me
stesso l'esperienza profonda della mia anima, io la sento ma non posso
concepirla in un'altra maniera. Ma perché non posso concepirla? E' perché
trascendo continuamente l'esperienza stessa di questa notte dell'anima.
In una persona che ha avuto o ha delle difficoltà ad avere delle soddisfazioni
l'Io può essere meno centrato, è più debole. La personalità più debole
è più disponibile a percepire una trascendenza, ascolta di più. Mentre
sarà meno disponibile un Io integrato, un Io che può essere addirittura
tronfio in certi momenti dei risultati raggiunti nella sua storicità,
un Io che fatica a pensare che esiste una forza superiore a lui che lo
comanda. E' la forza dirompente ma nello stesso tempo discreta dell'anima,
questa forza che si fa innamorare di se stessa, distruggendo tutti gli
schemi, tutte le strutture che l'Io si era costruito.
Per ritornare al tema di Eros, il vero Eros è l'esperienza dell'anima.
Noi siamo occidentali e la viviamo anche nella tradizione cavalleresca.
In essa questo aspetto maschile del guerriero a cavallo, dopo la tradizione
pagana, celtica, in cui ci sono i fondamenti della cavalleria, con l'avvento
del cristianesimo diventa il guerriero di Dio, l'uomo spirituale per eccellenza,
diventa la rappresentazione del Cristo, l'uomo nuovo che porta la buona
novella, il simbolo del guerriero a cavallo, colui che sa dominare i suoi
istinti, non nel senso di reprimerli ma in quello di sposarsi con essi.
C'è un elemento ulteriore oltre al cavallo e alla sua spada, spada come
la forza che discrimina, che rappresenta l'intelligenza del cuore, che
può punire, può offendere ma, nello stesso tempo, è un arnese alchemico,
che dissolve, ferisce. Ma il. sangue della ferita si coagula. Questo è
il vero simbolo della spada: un'arma costruita per il combattimento fra
uomo e uomo, tutte le altre armi derivano dall'ascia. La spada è fatta
per mettersi prima in contatto con l'aldilà, il Dio in cui credi, che
tu sia un guerriero mussulmano o un crociato, il Dio in cui credi si comunica
attraverso questa spada, questa antenna fra la propria anima e la divinità.
Dopo di che c'è la orizzontalità della spada, il ringraziamento verso
l'avversario prima del combattimento, perché lui è Tanatos, visto
come occasione di reintegrare tante esperienze della paura, della ferita,
della morte stessa nel combattimento; è l'occasione per recuperare una
parte di se stesso che non era stata ancora trovata. Questo è il simbolo
del duello, che può essere fatto solo fra due persone, il resto è un combattimento.
Due reparti che si scontrano è un combattimento, non un duello, Il duello
è fare luce in me, ciascuno fa luce in se stesso, attraverso la paura,
che è già una morte, un'assenza, attraverso la ferita. La spada è un'arma
da usare non di punta ma di taglio, perché lo scopo è di mettere fuori
combattimento, non di uccidere. Il togliere all'altro l'esperienza del
suo ruolo di essere un cavaliere è peggio della morte. Il cavaliere, se
uccide di punta è perché ha la volontà di uccidere, può capitare incidentalmente
che ferisce un cavaliere che cade dal cavallo e muore ma è indiretta la
morte, non è voluta dall'altro. Se io combatto di punta, vuol dire che
io voglio la sua morte. La spada serve solo per far prendere coscienza
dell'assenza del suo cavalierato, momentanea, ma che gli fa recuperare
un aspetto non integrato della sua anima.
Parlavo di un terzo elemento, oltre alla spada e al cavallo, e questo
elemento è la dama, che spesso e volentieri non era incarnata in una donna
fisica e non era neanche la compagna, l'innamorata del cavaliere, spesso
era una donna che poteva essere anche molto anziana, che rappresentava
la nobiltà, attraverso il femminile, la Isha. Quindi questa dama era l'anima,
che non sarà mai raggiunta, una signora nobile, anziana, a cui pensare
liberi da ogni velleità sessuale ma con un altro tipo di eros. Essa era
il riferimento al mio aspetto creativo, al mio aspetto femminile, del
mio aspetto anima in cui il maschile rappresenta l'Io integrato, l'Io
guerriero, la volontà, l'aspetto padre nella trinità cristiana, l'aspetto
padre del Fiat lux: voglio la luce e la luce sarà. Il cavaliere,
il guerriero vuole la vittoria per un obiettivo ben preciso e vittoria
sarà, il cavaliere è sicuro di vincere perché il principio per cui combatte
è un principio universale, è un principio trans-personale che va oltre
gli appetiti del suo Io che si può sacrificare tranquillamente, il vero
guerriero non combatte per la sua ricchezza, il suo potere, ma combatte
per una legge universale. Se combatto per una legge universale, trans-personale,
io io ho già la vittoria in mano. Se io combatto per questa legge sono
l'aspetto padre, ma la volontà di questo aspetto padre deve essere corroborata
dall'aspetto cristico. E' importante che, nella tradizione esoterica,
l'aspetto cristico sia l'aspetto femminile. Il figlio è la parte femminile
di Dio, la parte creatrice di Dio. Il Fiat lux del padre, l'aspetto
maschile, è dettato dall'esigenza di amore che l'aspetto padre ha ma che
è stato mosso e provocato dall'aspetto femminile. ed è quindi questo aspetto
che suscitato la vita ed ha creato l'universo. E' l'aspetto amore, l'aspetto
eros, che è quindi la manifestazione di questo universo, la riflessione
di tutta la volontà divina, di tutto l'aspetto divino integrato nel suo
maschile e nel suo femminile. Questo aspetto si riflette nelle forme contingenti
e noi facciamo esperienza di esse, e recuperiamo il famoso mito della
casa del padre, recuperiamo la coscienza di noi stessi, il ritorno al
padre tramite questa esperienza, ci rispecchiamo in noi stessi, riconosciamo
le nostre forme attraverso questa riflessione, come rappresentazione della
divinità, quella divinità che è dentro di noi. Allora Euridice rappresenta
questa occasione di tanatos, di eros, l'occasione che crea eros
se io riesco ad andare al di la del mio Io, se riesco a perdermi. Se noi
pensiamo al rapporto sessuale, il vero orgasmo avviene quando non ci identifichiamo
più con noi stessi, ma siamo un'unica cosa con il partner con cui stiamo
facendo l'amore, quindi un momento di dispersione dell'Io, esattamente
l'opposto del mito di Orfeo. C'è un'anima che trascende la mia anima,
non solo l'Io, perché le due anime che si incontrano diventano un'unica
cosa....
Vittorio M.
Noi volevamo bere un bicchiere per dissetarci, dissetare la nostra sete
di conoscenza, ma tu sei un fiume, siamo sommersi da questo fiume, non
riusciamo neanche a deglutire...vorremmo in qualche modo partecipare,
se accetti di avere un dialogo con noi. Devo dire che io, personalmente,
non sono portato a controbattere alcunché, amo ascoltare in silenzio,
e sto bevendo all'acqua del tuo fiume. Mi ha però colpito il fatto che,
nello schema del nostro Seminario che ti abbiamo presentato, con i diversi
stati dell'anima che esso esplora e che abbiamo chiamato Euridice, Proserpina,
Psiche, non abbiamo mai evocato l'elemento maschile che conosce questi
stati, che li sperimenta. Tu hai invece introdotto questo personaggio
di Ulisse che, fra l'altro, è uno dei più famosi conoscitori dei diversi
aspetti del femminile, Calipso, Circe, Nausicaa, Penelope..., ed hai quindi
portato questo elemento nuovo nel nostro contesto, che era piuttosto simile
a un gineceo. Forse, inconsciamente, consideravo me stesso come un Ulisse,
in questo viaggio nella mia anima, vista attraverso le presenze femminili
in cui essa si è proiettata. Vedevo poi il vero protagonista, al di là
dell'Io che ha sperimentato tutto questo, nel Sé interiore, che ci accingevamo
a scoprire alla fine del processo, dopo aver constatato quanto le varie
seduzioni e esperienze dell'eros siano certo vitali, ma anche illusorie
e temporanee.
Con la tua lettura di Ulisse, hai detto delle cose splendide ma anche
alcune che mi riesce difficile condividere. Mi sembra che Ulisse sia proprio
una personificazione dell'Io, non di un trascendere l'Io, come tu dici.
In lui c'era una volontà di conquista, di ruberia, di inganno, alleata
alla sete di avventure sempre nuove, si è accostato anche a moltissime
forme del femminile ma non so quanto ne abbia captato il senso, al di
là del gusto dell'avventura. Mi sembra che Ulisse sia piuttosto l'esempio
di quella parte dell'umanità che vuole sempre spostare in avanti il limite
della sua affermazione, un Ulisse contemporaneo creerebbe una rete internazionale
di affari, volerebbe in aereo da una parte all'altra del mondo...ma questa
non mi sembra, né ai tempi di Ulisse né oggi, la strada del conoscere
se stesso e del trovare il divino in noi. Mi domando come Ulisse abbia
trovato il divino in sé, trascendendosi, come tu dici. Dante ha interpretato
in modo più realistico la possibile fine di questa parabola con l'inabissamento
di Ulisse e dei suoi compagni nell'oceano. Omero non aveva immaginato
che Ulisse, stanco del suo riposo a Itaca, avrebbe messo insieme degli
amici convincendoli a rimettersi in mare per andare di nuovo alla ricerca
di avventure, fino alle colonne d'Ercole e oltre, e che lì si sarebbe
finalmente inabissato. Questa mi sembra proprio la tragedia dell'Io, ma
non il cammino dell'uomo che giunge alla saggezza, e neppure l'immagine
del cavaliere medioevale che combatte per un amore ideale, e tanto meno
il Cristo. Non vedo proprio cosa hanno in comune questi personaggi..
Alberto Ugo C.
L'Ulisse del racconto molto laico, neppure pagano, dell'Odissea, si presenta
con l'aspetto esteriore che vedi tu e che condivido se mi limito a una
lettura letterale. Ma la divinità che trova Ulisse è nel momento in cui
spezza il cerchio in una spirale. Lui ritorna, ma non è la chiusura di
un ciclo, è il primo mito occidentale in cui c'è la rottura del fato,
quella forza più forte degli stessi Dei che devono quindi anch'essi soggiacervi.
Rompendo questo aspetto, è come se avesse trasceso. Avendo trasceso il
suo Io, riconosce la divinità che è in se stesso. E quindi in qualche
modo ha liberato gli Dei, ha liberato Dio da una proiezione semplicemente
umana. Questo fatto è una proiezione dello scacco esistenziale in cui
l'uomo si trovava, un uomo che è pre-cristiano, che non riesce assolutamente
a vedere la trascendenza. Lui riesce a trascendere se stesso e, così facendo,
riesce a vedere la sua spalla destra, si potrebbe dire, come nel segno
della croce all'ortodossa. L'Io oggettivo che ha dentro di se, non è esplicitato
a livello letterario, ma di fatto il percorso di Ulisse è proprio questo.
Egli ritorna spoglio, povero, straccione...
Vittorio M.
Si, ma è un'astuzia, anche se tu dirai che essa fa solo parte della lettera
del poema mentre la sua interpretazione ...ma devo prima chiedere se c'è
qualcun altro che ha qualcosa da dire?
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