Nel dibattito sono intervenuti
anche: Pat Sophie Graja, Silverio Guanti, Elisa Merli, Ettore Lariani,
Paolo Manasse, Luisa Gonella Caterina Bazzani, Giorgio Fedeli, Gaetano
Marchisio.
Vittorio Mazzucconi
Nell'incontro precedente si è parlato molto dell'ombra.
La seduta era dedicata alla "Caverna Oscura", cioè la caverna di Platone,
in cui ancora oggi possiamo riconoscerci. Si guardava quindi molto alla
caverna come alla condizione umana, da cui, con mille sforzi, non solo
in questa vita ma in mille vite, in tutta la storia umana, in tutta l'evoluzione
si cerca di uscire, per arrivare a quella luce che Platone supponeva esterna
alla caverna, al di fuori di essa. Questa volta si va avanti in questo
processo e si parla della Discesa agli Inferi.
Che cos'è? E' un antico pensiero dell'umanità che, per conseguire la saggezza,
occorra prima andare agli Inferi. In termini moderni, si dice che bisogna
incontrare la propria ombra, un cammino assolutamente obbligato. Sarebbe
impossibile svegliarci la mattina se non ci fosse stata la notte dietro
di noi, come non sarebbe possibile nascere se non ci fosse stato dietro
uno stato, per quanto sconosciuto, di esistenza, così almeno io penso.
Per chiarire il nostro percorso spirituale, per arrivare appunto a una
luce, bisogna passare dall'oscurità e rendersi conto che questo passaggio
non è una condanna ma una conquista. Nella storia della cultura ci sono
state tante discese agli Inferi, da Eracle a Ulisse, a Enea, a Dante stesso
che ne costituisce forse l'esempio più straordinario, avendo costruito
tutto un poema, di cui l'Inferno è la prima e dolorosissima tappa, per
poi passare al Purgatorio e quindi al Paradiso. Ora, queste sono categorie
che magari non corrispondono più alla nostra cultura. Pensando al nostro
percorso o facendo analisi non lo facciamo più in termini di inferno,
purgatorio e purtroppo non certo di paradiso, ma nel senso di imparare
a conoscere noi stessi. In certi aspetti della vita, come nell'amore,
nell'eros, si incontrano queste tappe. L'eros che ci fa innamorare, che
ci rende felici e quindi in qualche modo ci illude di essere usciti dalla
caverna e di vivere un'esperienza di luminosità, di piacere, di felicità,
e invece dopo, quando l'amore finisce, ci ripiomba e rinchiude nella caverna,
ancora più dolorosa di prima. Se c'è infatti una caverna iniziale che
è semplicemente una mancanza di luce, in cui non ci si rende magari neanche
conto di essere in una condizione di oscurità - essa ci sembra anzi normale
- con la fine di un amore c'è invece una caduta da uno stato di felicità,
in cui uno misura completamente qual'è il dolore, qual'è lo spessore dell'oscurità
in cui è precipitato.
Il Seminario è stato articolato in tre miti, che sono altrettante letture
attraverso cui il dialogo con le parole e con le immagini che vi mostrerò
parla di diverse fasi della vita dell'anima. La volta scorsa ne abbiamo
anticipato una vista di insieme: dapprima con il mito di Euridice, cioè
della perdita dell'anima nell'oscurità; poi con il mito successivo di
Proserpina, in cui si giunge a una specie di accordo, di compromesso,
di equidistanza fra la vita e la morte, la permanenza negli Inferi e il
ritorno alla luce; e infine, con Eros e Psiche, con cui abbiamo visto
come l'anima, emancipata da questa esperienza, giunge a un livello superiore
di sviluppo, e diviene così degna di essere accolta fra gli Dei. Questo
penso che sia proprio il fine della vicenda umana.
Oggi però dobbiamo visitare l'inferno. Mettiamoci nei panni di Dante,
quando fa dire a Caronte, se non ricordo male: "lasciate ogni speranza
voi che entrate..." Entriamo infatti in un mondo molto duro, di grande
oscurità. Nella mia vita, l'ho incontrata in rapporto con la perdita di
un amore. Bisogna dire però che tale perdita, per quanto grave, non era
che un'occasione contingente, poiché l'oscurità in sé è qualcosa che io
mi porto addosso, tutti voi ve la portate addosso, viviamo in questa situazione
che viene rivelata all'improvviso. E' come uno che crede di vederci bene
e poi magari, andando da un oculista che gli prescrive degli occhiali
adatti, scopre che, prima di quel momento, ci vedeva in realtà malissimo.
Così è la nostra oscurità, di cui non ci rendiamo conto, finché non ci
è rivelata. Essa è in noi come una parte densa della nostra natura ma,
per liberarla, occorre un evento traumatico come può esserlo la perdita
di un amore, o un lutto, o una crisi, come capita un po' a tutti nella
vita.
Il quadro che è qui appeso (1978.50 Atlantide), l'ho scelto perché, in
ogni incontro, mettiamo in evidenza un quadro significativo dell'argomento
trattato. Però questo, in verità, sarebbe più adatto all'incontro su Psiche
che non a questo su Euridice, oppure diciamo che potrebbe essere dedicato
ad ambedue i miti, poiché essi vogliono dire in fondo la stessa cosa.
C'è poi in tutti qualcosa di comune, che ci fa pensare. Come è stato rilevato
l'altra volta, Euridice è persa per sempre quando Orfeo si volta a guardarla,
Proserpina non può neanche vedere, vivendo in un Inferno privo di luce,
e Psiche perde Eros proprio perché lo vuole vedere accendendo la lampada.
Si direbbe che questa oscurità non possiamo neanche cercare di chiarirla,
o almeno non si poteva farlo ai primordi della condizione umana, in cui
essa era probabilmente necessaria come una notte che prepara il giorno
ma non deve essere interrotta nella sua naturale e benefica durata. L'oscurità
può essere espressa in tante forme anche se, in questi miti, si presenta
sempre come la donna e come un'esperienza di amore, che poi genera tante
personalità secondarie, come possono essere quella di Euridice, di Proserpina
o di Psiche. Quindi qui è adesso inutile chiedersi chi sia questa creatura.
Sta di fatto che si tratta di una discesa, la discesa di Orfeo, di Eros,
di un principio spirituale, in un'ombra, una cavità femminile, una cavità
terrestre, come, nel quadro, lo si vede nel marrone della terra. Una cosa
incoraggiante in questo quadro è che, per quanto sia oscuro il mondo in
cui questo essere scende, anzi noi stessi scendiamo, al di fuori e al
di sopra dell'oscurità c'è l'azzurro, c'è la luce. C' è quindi il cielo
e la terra, la luce e l'ombra. Sono due realtà equivalenti e complementari?
Ci piace pensare che non sia proprio così. La natura del cielo è infatti
di essere azzurro e sereno, anche se ci possono essere delle nuvole che
passano, ma in modo transitorio, effimero rispetto alla permanenza dell'azzurro.
Non è una lotta fra la luce e la tenebra come fra due forze di eguale
potenza, poiché è la luce la vera realtà, vincente nonostante ogni temporaneo
oscuramento. Noi viviamo però proprio in questo. Nel quadro, è come come
se si intuisse che esiste una realtà superiore di spiritualità, di azzurro,
di luce ma che, al di sotto di essa, viviamo nell'esperienza terrestre
ed anche sub-terrestre, quella delle profondità in cui appunto noi entriamo.
Orfeo che va alla ricerca di Euridice, possiamo vederlo anche in un'altra
forma, cioè nel suo andare alla ricerca della profondità della sua anima,
che ha proiettato in Euridice. Ognuno di noi, quando ci innamoriamo delle
donne o le donne degli uomini, proiettiamo la nostra anima - Jung diceva
il nostro animus nel caso delle donne - nella persona amata. Ma è proprio
la nostra anima che è il protagonista. Quindi, in qualche modo, Orfeo
che va alla ricerca di Euridice è la nostra anima che va alla ricerca
di se stessa e appunto trova questa profondissima oscurità, e trova anche
questo rapporto con la terra. Quando si parla di anima, non si può dimenticare
che siamo anche corpo. Quindi, anima e corpo sono intimamente uniti. Questa
oscurità è proprio fatta di terra. Nello stesso tempo c'è il cielo. Un
famoso poeta e critico d'arte, Roberto Sanesi, scrisse un pezzo su questo
quadro, sostenendo che era una collina, sulla cima della quale si celebrava
un sacrificio, un rito sacrale. La nuvola bianca era secondo lui segno
certo di una spiritualità. Questa, diciamo, è un'interpretazione che capta
la presenza di un mistero, ma non lo svela.
Come chiedeva Elisa l'altra volta, come si può trasferire nel colore,
nella mano, nel tatto, un mondo non conosciuto, non razionale, con quali
mezzi..., e io accennavo al fatto che, più che pensare al cervello che
trasmette degli impulsi alla mano, per dipingere, per scrivere, per suonare,
bisogna pensare all'inconscio, questa forza profondissima che, come dice
la parola, noi non conosciamo, e che cerca in qualche modo di esprimersi,
qualche volta con parole, qualche volta con gesti, qualche volta con i
sogni, e tutto questo in modi arcani, nascosti, che la ragione cerca poi
di chiarificare. Ma come diceva Silverio, può farlo fino a un certo punto
perché, se intellettualizziamo troppo, allora inaridiamo il mistero che
volevamo conoscere. Il sogno va svelato, va chiarito, ma non troppo, altrimenti
se ne perde appunto il mistero, la forza che ci nutre ed aiuta. Anche
perché il contenuto di un sogno o di un quadro è un contenuto multiplo,
non è un messaggio razionale; altrimenti non avrebbe bisogno di essere
comunicato in un modo così misterioso. Non è una frase che ha un inizio
e una fine, un senso preciso: è un qualcosa di meta-psichico, un insieme
che può essere percepito a livello razionale in modi diversi, secondo
come lo si guarda. Come tutto del resto, come la verità, che non è un'idea
assoluta, ma qualcosa che ognuno può vedere in un modo o in un altro...ma
non che siano letture arbitrarie, è solo che la vera verità è un tutto,
è un simbolo totale che ha quindi innumerevoli facce, innumerevoli sensi,
tutti veri ma tutti parziali.
|